ARIA (SubITA)

Titolo originale: Aria
Paese di produzione: UK, USA
Anno: 1987
Durata: 90 min.
Genere: Commedia, Drammatico, Visionario, Musicale
Regia: Robert Altman, Bruce Beresford, Bill Bryden etc

Dieci registi “interpretano” altrettanti brani musicali classici (Verdi, Lully, Korngold, Rameau, Wagner, Puccini, Charpentier, Leoncavallo). Tra gli altri: Godard gira in una palestra di culturisti e Altman mette in scena dei nobili e dei poveracci a teatro. Risultato non troppo omogeneo, ma a tratti geniale.

Reperto anni Ottanta poco ricordato, l’opera collettiva Aria appare oggi come un progetto diseguale e interessante, ambizioso e inevitabilmente fallimentare. Con punte di genialità soprattutto grazie ad Altman e Godard. In dvd per Pulp Video e CG.

Dieci autori sono chiamati a dedicare ciascuno un breve frammento audiovisivo a diverse arie dell’opera classica (brani di Verdi, Rameau, Puccini, Wagner, Lully…). Tenuti insieme da una labile cornice dedicata ai Pagliacci di Leoncavallo, si alternano contributi di grandi autori come Altman, Godard, Russell, Roeg, Jarman. [sinossi]

Gli anni Ottanta sono anche l’epoca di nuovi, emergenti linguaggi audiovisivi. Uno fra tutti, la grande novità del videoclip, veicolo commerciale con crescente consapevolezza artistica delle proprie risorse. In tal senso, non appare casuale che un film come Aria (1987) veda la luce più o meno al centro del decennio, in uno dei momenti di maggiore entusiasmo per questa nuova forma espressiva. Ma sarebbe comunque ingiusto relegare la bizzarra e interessante operazione di Aria al puro e semplice cimento di un gruppo di autori con l’ultimo venuto dei codici audiovisivi. Si tratta in realtà di un’operazione più complessa e anche più ambiziosa, dagli esiti decisamente alterni, ma sicuramente da non liquidare come film antologico stancamente realizzato su commissione.

L’operazione si fonda sull’idea di celebrare il mondo dell’opera affidando a dieci registi un breve frammento audiovisivo da realizzare sullo spunto di una celebre aria operistica. Nelle scelte dei singoli autori ovviamente la fa da padrone il melodramma italiano, con netta prevalenza di Giuseppe Verdi ma anche con incursioni nella “Turandot” di Giacomo Puccini e nei “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo. Altri omaggi coinvolgono Rameau, Lully, e il “Tristano e Isotta” di Richard Wagner, andando poi a riscoprire un autore meno conosciuto come Erich Korngold, che nella prima metà del Novecento si dedicò ampiamente anche alla composizione di musica per film a Hollywood.
All’epoca della presentazione di Aria in concorso al festival di Cannes l’accoglienza fu fortemente negativa. Si riconosceva la genialità di alcuni dei frammenti, ma nel complesso si confinava l’opera nel triste novero delle occasioni mancate e dello spreco di talento. E’ una sensazione da cui è difficile scrollarsi anche adesso, visto che i nomi coinvolti sono in parte veri e propri capisaldi della storia del cinema (Robert Altman, Jean-Luc Godard, Ken Russell), autori talvolta troppo sottovalutati (Nicolas Roeg, Derek Jarman), o figure importanti per gli anni Ottanta (Julien Temple, Franc Roddam). Ammucchiare tali e tante personalità in un film vagamente “portmanteau”, insomma, comporta un’enorme prontezza e senso della sintesi da parte dei singoli autori per poter confermare ciascuno nel proprio breve frammento audiovisivo lo smalto e l’efficacia di un individuale universo creativo. Così, vista anche la durata molto variabile da un frammento all’altro (si va dai 3 minuti alla più ampia dimensione del quarto d’ora), inevitabilmente la qualità dei singoli contributi è estremamente diseguale, spaziando dal videoclip patinato senza particolare ispirazione (Bruce Beresford e Charles Sturridge, i meno convincenti), alla geniale fiammata autoriale (ovviamente Altman, il migliore, e Godard). Però prima di ogni altra considerazione è bene liberare Aria dall’idea generale di somma di videoclip, soprattutto perché sono davvero pochi i contributi che rievocano da vicino tale dimensione espressiva. Si tratta invece, e per lo più, di vere e proprie evocazioni audiovisive che si distendono in una loro specifica dimensione narrativa, e che creano ognuno a suo modo legami e riflessi con l’aria operistica prescelta. Sono altrettanto pochi, infatti, i frammenti che legano la propria espressività all’idea rapida, in chiave mimetica o in “associazione libera”, del videoclip anni Ottanta. Ed è interessante scoprire che gli autori dei frammenti più simili all’idea del videoclip non avevano esperienze precedenti sul campo, mentre ex-autori di videoclip (Julien Temple) si cimentano con esperimenti linguistici non così debitori di quella nuova estetica. Quasi come se ogni autore avesse colto l’occasione di Aria per mettersi alla prova con qualcosa di nuovo, per riconfermare il proprio universo creativo e al contempo sfondarlo, andare altrove.

Il più indicativo sotto questo aspetto appare sicuramente il contributo di Robert Altman, capace di sintetizzare in circa 15 minuti un riconoscibilissimo universo espressivo personale con materiali narrativi apparentemente distanti dal suo cinema. Altman lavora su “Les boreades” di Rameau, affidandosi ad alcune delle sue più note risorse espressive: zoom accompagnato anche da dolly, per ribaltare significativamente il punto di vista del sistema-spettacolo. La scelta narrativa è tra le più penetranti dell’intero film: la della prima a teatro dell’opera di Rameau a cui assiste un pubblico di pazzi secondo una presunta usanza sadica del tempo, ovvero gli aristocratici si divertivano a portare a teatro con loro dei malati di mente per gustarne le reazioni davanti allo spettacolo. Altman sceglie di ribaltare la dinamica dello spettacolo, imbastendo una sorta di lungo controcampo alla messinscena operistica. In pratica, la macchina da presa è costantemente frontale al pubblico, assumendo il punto di vista del palcoscenico e soffermandosi sulle reazioni di massa. A ben vedere, anche in questa breve occasione Altman rimette in campo buona parte del suo universo espressivo; narrazione corale, riflessione sugli spietati meccanismi dell’industria dello spettacolo, stavolta rievocati ai suoi storici albori in quel grande fenomeno di che fu l’opera, e grande capacità di sintesi metaforica. E’ impossibile non ravvisare infatti nella moltitudine di spettatori pazzi, sfruttati da crudeli aristocratici per il loro divertimento, quell’idea di stratificazione sociale contro la quale si è accanita buona parte dell’opera altmaniana. Tanto che, ricollocando il suo spirito polemico in un contesto storico-sociale così lontano dal suo cinema, Altman si scioglie una volta di più dalla contingenza, si libera dall’immediato riferimento alle strutture e sovrastrutture della moderna società occidentale per giungere a una riflessione ontologica, estremamente pessimistica, su universali dinamiche umane. E’ l’unico, tra tutti gli autori coinvolti in Aria, a utilizzare il confronto con la dimensione operistica per metterla in discussione, per polemizzare con essa, per identificarla insomma nella forma embrionale di quella società dello spettacolo di massa che più volte è stata al centro del virulento cinema di Altman. E in tal senso è significativa la scelta del punto di vista ribaltato, che trasforma in spettacolo le reazioni del pubblico, riducendo quindi gli spettatori a vittime inconsapevoli di un sistema sociale. L’esibizione siamo noi, non più ciò che si vede sul palco. Il sé esiste, insomma, solo se mostrato ed esibito per il pubblico loisir.

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Nell’insieme di Aria, il contributo di Robert Altman resta il più alieno, un vero “fuor d’opera”. Fatta eccezione per il divertente frammento di Jean-Luc Godard, gli altri grandi autori coinvolti (Nicolas Roeg, Ken Russell, Derek Jarman) se la cavano affidandosi al proprio universo creativo, senza nulla aggiungere o togliere al proprio cinema. Un discorso a parte merita invece il contributo di Julien Temple, il più virtuosistico di tutti, che giunge a un’interessante sintesi tra la propria in videoclip e il del cinema. Temple costruisce una buffa sarabanda boccaccesca avvalendosi di un unico falso piano-sequenza, che trova le sue nascoste cesure nella zona buia di una sezione di parete. A suo modo, anche Temple gioca con l’idea di spettacolo, collocando il racconto in ambito metacinematografico (trattasi di una storia di corna incrociate di una coppia attempata, in cui il marito è un produttore di cinema e, con sfondamento della mimesi e cortocircuito autoreferenziale, probabilmente il produttore di Aria stesso – lo si deduce da una telefonata). A differenza di Altman, però, Temple riduce il tutto a un puro gioco postmoderno, collocandosi in un territorio mediano tra l’estetica del videoclip (il kitsch sfrenato delle scenografie e delle luci adottate) e l’applicazione di estremismi linguistici puramente cinematografici (il piano-sequenza), che tuttavia a loro volta iniziavano a essere sperimentati anche in ambito-videoclip, territorio d’elezione di virtuosismi presi di peso dal linguaggio del cinema ed enfatizzati in un nuovo contesto, breve e quindi intensivo.

Più in generale, l’unità espressiva di un film multiforme come Aria è data dal progetto a monte, che coinvolge sì autori di varie nazionalità (Altman, Godard, Beresford) ma che in sette casi su dieci si affida a cineasti britannici, e che nasce comunque come impresa produttiva dello scozzese Don Boyd e della Virgin Group di Londra. Nel suo complesso, Aria si profila infatti come un prodotto di due d’autori albionici accomunati da forte spirito provocatorio, quasi a voler radiografare e compendiare come nel cinema britannico l’idea di provocazione si fosse modificata nel trascolorare dagli anni Sessanta agli Ottanta. Da un lato, i vulcanici Roeg e Russell, sperimentatori formali e visceralmente antiborghesi, già alle prese con interessanti commistioni tra cinema e musica lungo tutti gli anni Settanta: dall’altro, i nuovi venuti della generazione del videoclip (Temple, Roddam), che conducevano nuove sperimentazioni secondo un’idea di audiovisivo più giocoso e postmoderno, disimpegnato o scopertamente romantico. In mezzo, l’universo del tutto personale di Derek Jarman. In ultima analisi, Aria si delinea come un omaggio più al cinema britannico di due decadi che al contesto espressivo dell’opera classica. E’ un’occasione per riassumere, e in qualche modo congedare, due generazioni creative, che non a caso da lì in poi andranno incontro a parabola discendente (Roeg e Russell realizzeranno poco altro; Jarman morirà precocemente; i più giovani spariranno rapidamente dallo scenario internazionale). Non a caso i produttori si rivolsero a loro, rappresentanti di una lettura visionaria del cinema che poteva ben sposarsi a una riflessione autoriale su musica e rappresentazione visiva. Una parata in grande spolvero di spettacolo autocelebrativo, di cui prevedibilmente solo Altman, uno degli “stranieri” (non solo geograficamente, ma anche per sua intima e coerente scelta di tutta una carriera) poteva mettere in luce tutta la violenta illusorietà. La prima critica di Altman, probabilmente, si scaglia proprio contro progetti come Aria. Così lucido, intelligente e sagace, come sempre, da porsi come sguardo critico anche all’interno dello stesso progetto a cui sta partecipando.

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