SOKOUT [SubITA]

Titolo originale: Sokout
Nazionalità: Francia, Iran, Tagikistan
Anno: 1998
Genere: Drammatico, Musicale
Durata: 76 min.
Regia: Mohsen Makhmalbaf

Korshid è un ragazzino cieco di dieci anni dotato di un udito eccezionale che vive solo con la madre in un piccolo villaggio del Tagikistan. Tutti i giorni la piccola Nadereh lo cerca alla fermata dell’autobus per condurlo dal liutaio presso il quale lavora. La ragazzina è il suo sguardo sul mondo mentre Korshid è attento ad ogni piccolo che riesce a percepire. Sarà la musica del mondo attorno a lui a farsi conoscere la vita.

Come molti altri film che provengono dall’est del mondo, l’aspetto più significativo de Il non è l’intreccio narrativo o il suo sviluppo progressivo da un particolare dato di partenza, ma piuttosto la ricercatezza degli elementi raffigurativi, l’accumulo di immagini e elementi simbolici, la geometria creata dalle relazioni tra i personaggi, l’interdipendenza con altre arti, come la filosofia, la poesia e la pittura, i richiami sottovoce fatti alla realtà e alla cultura della società contemporanea iraniana. La pellicola di Mohsen Makhmalbaf è, quindi, più un trattato di natura estetica che un racconto ‘verosimile’. La cecità di Khorshid è il primo elemento metaforico presente nel film: se da una parte rappresenta l’ottenebramento di chi vive in situazioni precarie (la povertà della sua famiglia ritorna costantemente in auge ogni giorno che passa e ogni qual volta il padrone bussa alla porta), dall’altra simboleggia la possibilità di un punto di ‘vista’ diverso sulle cose. Lo confermano le scene in cui il ragazzino consiglia di chiudere gli occhi alle coetanee che incontra sul bus (facendo però perdere loro la fermata giusta), in cui si fa guidare dalle proprie orecchie in mezzo ai mille rumori della città, o in cui sente meravigliosi suoni laddove gli altri non sentono niente (l’acqua che scorre, il ronzio dell’ape, i battiti degli strumenti artigianali).

La cecità non è dunque un handicap ma è uno strumento – adottato per esempio dalla stessa Nadereh per trovare Khorshid in mezzo ad un mercato – che conduce in un universo, buio e colorato insieme, dove è plausibile immaginarsi una vita alternativa a quella a cui ognuno si sente vincolato. La di Khorshid dove finalmente, affrancato dal lavoro e dai legami parentali soffocanti, può seguire il suo di compositore, stabilisce così la reale possibilità di trovare un’altra identità, di scegliere una strada nuova, di conquistare una libertà insperata rispetto alle costrizioni del quotidiano. Di tutte le arti, quella che meglio riproduce l’idea di libertà è la musica, in quanto è linguaggio universale e ha uno spazio di propagazione quasi illimitato, senza barriere e confini. E Makhmalbaf affida a essa la forza liberatoria del film, una forza che è quella degli Ashîk, musicisti e cantastorie erranti dell’antica Persia, e che appartiene alla natura e ai brani che ne imitano i suoni (come il componimento del cavallo, il canto che ripete le tonalità delle pecore, la pioggia che crea una splendida musica colpendo il liuto caduto dalle mani del ragazzo).

Ancora più significativa è la scelta della Quinta Sinfonia di Beethoven come leit-motiv del film: l’incipit dell’opera, il famoso Sol-Sol-Sol-Miii, noto col tema del ‘ che bussa alla porta’ – si dice, tra l’altro che Beethoven abbia tratto ispirazione per il tema musicale dalle picchiate del proprio padrone di casa che veniva a pretendere l’affitto, così come avviene anche nel nostro film – restituisce allo spettatore l’idea dell’ineluttabilità del fato attraverso una versione dell’opera arrangiata con gli strumenti tradizionali iraniani, il târ, il setâr, il ney e il santûr, e suonata con veri utensili artigianali con cui si forgiano i vasi. Il film è costruito attorno ad un forte valore etico ed estetico dell’esperienza umana che fa da base alle possibilità emancipative dell’individuo. Bellezza e sono le facce della libertà: lo proferisce Khorshid quando afferma che il ronzio dell’ape è più armonioso se si posa sui fiori belli invece che sulla spazzatura, lo proferisce la pioggia che suona, in una delle scene più affascinanti della pellicola, il liuto con una dolcezza e bravura che gli uomini non sanno raggiungere, lo proferiscono i versi del poeta Omar Khayyâm (pronunciate dalle due studentesse sul bus), che teorizza la necessità di cogliere l’attimo.

Guarda anche  LFO [SubENG]

La proliferazione del colore, della luce e delle immagini simboliche (le foglie, il pane e le ciliegie, gli specchi) diventa così la trascrizione visiva delle sensazioni provate da Khorshid all’accenno di una musica affascinante, la riproduzione di quel fascino che ogni uomo prova davanti alla bellezza irraggiungibile del mondo. Il riesce ad essere quindi un film su un cieco e insieme un film sul colore e sull’immagine. Di questa contraddizione ne è stata data anche una lettura politica. Il regista non nasconde velate critiche alla società iraniana: le donne senza velo del Tagikhistan e i colori sgargianti dei loro vestiti si contrappongono al velo e ai vestiti grigi delle donne iraniane, le grandi stonature della banda di ragazzini nel parco raffigurano una sorta di discrepanza sociale. La cecità di Khorshid può raffigurare non tanto la cecità di un popolo (che ha ancora la forza dell’immaginazione), quanto l’ottusità delle prescrizioni rigide che vietano di assaporare i colori e la bellezza del reale.

Recensione: minori.it

 

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By Anam

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