WHITE PLASTIC SKY (SubENG)

Titolo originale: Müanyag égbolt
Paese di produzione: Ungheria, Slovacchia
Anno: 2023
Durata: 110 min.
Genere: Animazione, Drammatico, Fantascienza
Regia: Tibor Bánóczki, Sarolta Szabó

Lungometraggio di fantascienza in animazione rotoscopica, White Plastic Sky di Sarolta Szabó e Tibor Banoczki rappresenta una via europea e un’alternativa possibile ai blockbuster animati d’oltreoceano, grazie alla messa in scena di una distopia affascinante e filosoficamente ineccepibile. Una felice scelta (non l’unica) per il Concorso lungometraggi al Torino Film Festival 2023.

Decrescita infelice

2123. Di fronte alla diminuzione delle risorse, la razza umana può sopravvivere solo grazie a un compromesso: raggiunti i 50 anni, ogni cittadino viene gradualmente trasformato in un albero. Quando Stefan scopre che la sua amata moglie Nóra ha volontariamente donato il proprio corpo prima del tempo, intraprende un avventuroso per salvarla a tutti i costi. [sinossi]

Dopo la presentazione in anteprima alla Berlinale nella sezione Encounters e i passaggi nei festival di settore come Annecy e Sitges, White Plastic Sky di Sarolta Szabó e Tibor Banoczki sbarca anche nella nostra penisola grazie al Torino Film Festival, che lo ha selezionato per il Concorso ufficiale dell’edizione 2023. Scelta indubbiamente azzeccata per un film sorprendente, che manipola immaginari e assunti altrui riuscendo a comporre però un’ipotesi futuribile innovativa e peculiare, con una precisa di “world building” e delle dinamiche che concorrono alla sua composizione. Praticamente ogni film di fantascienza degli ultimi anni fa/deve fare i conti con i rischi connaturati al riscaldamento climatico, immaginando soluzioni e ipotizzando scenari, e la coppia di cineasti magiari riesce ad inserirsi in questo discorso appellandosi al senso di responsabilità, individuale e collettivo: il pianeta non può (più) sostenere una longevità umana superiore ai cinquant’anni di età. Tra cento anni esatti l’Ungheria, parte per il tutto per indicare il mondo intero, è ridotta ad una landa desolata; sopravvivono soltanto alcune grandi città, rinchiuse sotto cupole che isolano dall’esterno e purificano l’aria (il cielo di plastica bianca del titolo). Al compimento del cinquantesimo anno di età, lo Stato obbliga ogni essere a farsi impiantare un seme che, attraverso una transizione, lo trasforma in un albero, in un diverso tipo, dunque, di essere vivente che invece di consumare ossigeno lo restituisce all’ambiente e all’umanità. La paura tutta contemporanea per gli artisti ungheresi di vivere in una democratura, che sta limitando e limiterà nel futuro prossimo tutta una serie di libertà fondamentali, viene sublimata nel suo opposto: uno Stato coercitivo sì, ma per il bene collettivo e non per un misto di populismo e sovranismo cieco e mirato solo al facile consenso di pancia. Oltre alla questione ambientale, l’altro comune denominatore dei film fantastici contemporanei, specie nel nutrito filone supereroistico, è quello del conflitto tra affetti personali e sacrificio collettivo, dov’è sempre quest’ultimo a definire i confini del concetto di eroe. Anche questo ritroviamo nel film: Stefan e Nora perdono un figlio, quest’ultima non ha più alcun interesse e decide di farsi impiantare il seme a trentadue anni, rinunciando quindi a diciotto anni di esistenza in forma umana. Stefan, non riuscendo ad accettare la cosa, da novello Orfeo cerca in ogni modo di salvare la sua Euridice.

La vicenda si dipana attraverso una classica ripartizione in tre atti: la prima parte è ambientata nella Budapest del 2123 e serve a presentare ambientazione e personaggi, con Nora avviata verso la Piantagione, novello giardino dell’Eden e materializzazione di un’oltretomba che non è davvero tale; nella seconda (la più statica e ripetitiva in più di un passaggio) si esce nel mondo all’aperto dopo aver “estratto” Nora dal suo destino, diretti verso un non precisato luogo in cui uno scienziato/demiurgo pare in grado di invertire il processo; la terza si svolge tutta nella dismessa abitazione di quest’ultimo, e vari segreti, sia legati ai personaggi che all’umanità intera, verranno alla luce. Lo scienziato, che conosciamo come il Professore, rappresenta una tipologia di personaggio molto nota agli appassionati di fantascienza e del cinema tout court: ritornano alla mente, per fare solo due illustri esempi, il dottor Morbius interpretato da Walter Pidgeon nel seminale Il pianeta proibito (1956) di Fred M. Wilcox e il visionario professor Hobby di William Hurt in A.I. – Intelligenza artificiale (2001) di Steven Spielberg, il novello Pinocchio mai terminato da Stanley Kubrick e tratto dal racconto di Brian Aldiss. Il al termine del mondo / verso il principio del mondo dunque, topos narrativo di tutta la sci-fi con ambizioni “alte”. Come Morbius e Hobby, anche il Professore ha mutuato il mondo e il suo genio in conseguenza di un lutto, ancora una volta la scomparsa di una figlia.

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Passando al comparto tecnico, l’opera combina animazione 3D per gli sfondi e le ambientazioni e rotoscopia, che riveste di disegni le performance attoriali riprese dal vero. Il mix funziona, anche se l’impressione restituita dai grandi ambienti spogli è quella di una semplificazione degli elementi in scena dovuta più a questioni di budget che alle scelte di art design. La via per una fantascienza europea “competitiva” a livello internazionale può essere senza dubbio questa: affidarsi all’animazione per richiudere il gap economico con le cinematografie americana e nipponica, con le idee e la composizione di un team valido di animatori a sopperire alle carenze di denaro da investire. Oltre a quanto detto, tante altre tematiche vengono gettate nell’agone, in trasparenza o in filigrana: la libertà di scegliere su cosa fare del proprio corpo (in risposta alle crociate antiabortiste della destra di Viktor Orbán), il suicidio assistito, un’atmosfera post-tutto che continua a rimandare all’esperienza sovietica. Nel sacrificio collettivo per la conservazione della vita, o per un simulacro della stessa, a perdersi completamente è il diritto alla felicità, con il senso di catastrofe opprimente simboleggiato plasticamente dalla cupola, che salva ma imprigiona. Gli autori s’innamorano perdutamente del mondo creato e dei riferimenti rielaborati, peccando un po’ di hybris: il film è molto lungo, a tratti gira a vuoto, alcuni passaggi sono troppo “figli” d’immaginari pre-esistenti. Ma non si può che promuovere appieno l’operazione, e augurarsi una distribuzione decente nel nostro Paese.

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By Anam

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