NOMAD [SubITA]

Titolo originale: Lie huo qing chun
Paese di produzione: Hong Kong
Anno: 1982
Durata: 96 min.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Thriller
Regia: Patrick Tam, Terry Tong

Louis (Leslie Cheung) è un giovane rampollo di una ricca famiglia di Hong Kong, che ha un forte legame con sua cugina Kathy (Pa Ha). I due incontrano un giorno Tomato (Cecilia Yip), che diviene poi la ragazza di Louis,  Pong, che si fidanza invece con Kathy. Le due coppie iniziano a passare molto tempo insieme, divertendosi e girovagando, ma il passato di Kathy torna a bussare alla porta: è Sjinsuke Takeda, un uomo con cui Kathy era stata fidanzata quando viveva in Giappone e che ora è ricercato da un gruppo armato dell’estrema sinistra di cui faceva parte. L’uomo, in fuga, chiede aiuto a Kathy ma i killer giapponesi lo hanno ormai individuato. 

Nomad è un ibrido di difficile identificazione. Non tanto perché può apparire come una mediazione della prima firma di Tam, The Sword, e delle ambizioni del secondo lavoro, Love Massacre, quanto perché è un’opera controversa. Il difficile terzo film del regista emergente nasce da una premessa solidamente commerciale e germoglia all’interno di un trend del momento, gli youth movies portati avanti da Clifford Choi, che lo stesso anno sbanca il box office con lo sbarazzino Teenage Dreamers, prodotto dagli Shaw Brothers. Pur essendo il presupposto di partenza sufficientemente mainstream, subito la pellicola arriva a conclusioni spiazzanti, di inusitata violenza. Non si tratta allora di un semplice trattato sulla deriva giovanilista nella Hong Kong sconvolta, cinematograficamente parlando, dal fenomeno della New Wave; quanto di una dichiarazione d’amore, incondizionata, verso la cultura cantonese e le sue radici su grande schermo. Un parallelismo postmoderno che fonde due binari e stordisce critica e pubblico.
Non ingannino le nomination agli Hong Kong Film Awards, peraltro non seguite da nessun premio, né la rivalutazione a posteriori: Nomad non riscosse i plausi che avrebbe meritato. Eppure le premesse sono quelle di un prodotto confezionato per vincente. Dennis Yu mette insieme una troupe dal background eccellente. In particolar modo risaltano le musiche avvolgenti di Violet Lam, la sceneggiatura firmata, tra i tanti, da Joyce Chan e Eddie Fong, la direzione artistica di William Chang e John Hau, il montaggio ellittico di Cheung Kwok-kuen, la fotografia di Bill Wong, David Chung e Peter Ngor. Non è da meno il cast, che regala a un nugolo di ragazzini molto di più di un quarto d’ora di celebrità. Oggi tutti sanno chi era il compianto Leslie Cheung; e il fascino magnetico di Cecilia Yip ha colpito molti cuori. Meno noti, ma cardinali punti di riferimento, sono la magnifica Pat Ha, nominata insieme alla Yip come miglior esordiente della stagione, e lo charme casereccio di Ken Tong.

Punto primo: Tam abbandona il realismo, o meglio lo trasforma, adattandolo sotto il punto di vista estetico ad un contesto più frivolo. La New Wave, dopo Nomad, cambia faccia, e diventa per la prima volta Nouvelle Vague, consapevole del proprio valore artistico e al contempo ponderazione sociale. Fanno capolino le prime avvisaglie di step-framing, ralenti silenziosi, fotografia sporca da documentario, giochi di monocromia insistita. La cura formale diventa elemento essenziale, supporto costante alla narrazione, complementare tassello di un mosaico schizofrenico e colorato al neon. Tam fa suoi gli stilemi della pubblicità, come già era successo per alcuni episodi televisivi della serie Seven Women, e il materialismo si trasforma in contemplazione. Ne è perfetto prototipo l’idea di far baciare una ragazza in vetrina, quasi fosse un corpo in vendita, privo d’anima. Oppure, parallelamente, far incontrare due futuri innamorati in un ristorante, lui sperduto, lei nasty girl sui generis, che per palesare la sua identità di donna evoluta 1 vuole pagare il conto di persona anche se i soldi non sono i suoi.
La cultura è una facciata: possedere un libro non significa averlo letto; apprendere una lingua non implica capirne il significato recondito. Edonismo, negazione del trascendente e cinismo vanno di pari passo e sono complemento di partenza per la mercificazione della carne: sesso e sangue. Il secondo punto non può allora che l’erotismo. Nomad è una storia di bramosie represse, in cui il quotidiano scivola lentamente, tra noia, sensualità e nichilismo, e si assopisce tra imbarazzi e ossessioni. Le scene di nudo e la cruda violenza fecero scalpore e garantirono il massimo divieto. Purtroppo oggi in home video circolano solo versioni accorciate del film che, anche se sforbiciato dalla censura, risulta uno scomodo oggetto di discussione. Nell’epilogo i nodi vengono al pettine. Eros e thanatos si uniscono a braccetto e lo splatter prende corpo per sporcare – o ripulire? – da ogni possibile speranza (di lieto fine) una dichiarazione di intenti.

La tesi, sovversiva ma anche molto ironica, è che l’hongkonghese medio non ha una sua precisa personalità, è debole, plasmabile. Il cinema, la televisione e i media in generale pongono quesiti nuovi. La risposta dei giovani è duplice: da una parte l’esterofilia, vissuta con una certa ignoranza e non senza superficialità; dall’altra il riflesso di un passato che naturalmente ritorna attuale nel momento in cui si pone in confronto con le mode del momento.
La domanda, «When you pursue Japanese chic, can you also bear the Japanese sword?» (2), non è un’invenzione di Tam, ma un’incognita ricorrente di una civiltà da sempre divisa tra mondi opposti ma ugualmente imperfetti. Il dramma all’arma bianca è paradossalmente introdotto da una frase inglese, «No fight!», che suona ridondante e ridicola nello stesso momento in cui viene pronunciata. La soldatessa giapponese, sin dalla sua comparsa connotata come lesbica inquietante, si trasforma in un mostro sessuato. Se presa sottogamba, ogni cultura può perniciosa. La lezione ha valore anche oggi, dove al posto del Sol Levante ci sono le fiction sud-coreane, dove prodotti trendy come Hello Kitty o Pukka fanno furore, dove Fruit Chan, Stanley Kwan (qui aiuto regista) e Wong Kar-wai sono profeti fuori patria.
Lo scontro intellettuale non è solo tra Giappone e Cina, né tra occidente e oriente, ma più in generale tra vecchia e nuova generazione. Il montaggio parallelo sottolinea quanto siano distanti David Bowie e i movimenti kabuki (3), il teatro tradizionale cinese e la classica (la «Quinta Sinfonia» di Beethoven). Scena chiave: Pong, che deve cacciare tutti i parenti da casa per rimanere solo con la sua ragazza, paga loro il cinema. La madre è perplessa, il film è inglese, quindi è sicura che non potrà capirlo e si chiede perché con tante pellicole cinesi sia il caso di sceglierne una straniera. La figlia, pragmatica, la rassicura, e alla domanda «Dimmi un motivo per guardarlo», serafica risponde: «È lungo abbastanza, anche se fosse brutto abbiamo un posto dove stare per tre ore». Ovviamente la serata per il bullo è un disastro, il nonno torna a casa, ospite inatteso, e invita la combriccola di amici a giocare a mahjong. Ancora una volta il folclore sconfigge il progresso: la piccola rivincita del sesso consumato sul secondo piano di un pullman molto british è di scarso conforto.

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A questo punto è possibile smentire chi ritiene Nomad un’opera che guarda al di fuori dei confini nazionali con occhi luccicanti. Al contrario, è l’emblema del passato recente, riproposto a partire dalla sua controparte su grande schermo. Tam suddivide in quattro, volutamente, un concetto base nato negli anni sessanta, quello dell’«a fei» 4, che costruisce una figura di giovane ribelle, a metà tra Marlon Brando, James Dean e un teppista di strada, da immortalare nel suo vigore e nella sua vitalità. Da un lato Leslie Cheung, icona cantopop 5 che può spopolare come idolo delle ragazzine; dall’altro Ken Tong, bagnino e tassista per caso, precursore del fascino populista di Andy Lau.
Solo che Tam addolcisce con fare paterno i toni. L’assenza di adulti di peso gioca un ruolo chiave nello spaesamento e nell’abbandono dei protagonisti, coccolati unicamente dalla da presa. Tanto da assistere ad un ribaltamento del ruolo dell’«a fei», che perde ogni sfaccettatura negativa e filtra dai suoi predecessori generosità, curiosità, carisma, entusiasmo, voglia di (stra)fare. Se in Joys and Sorrows of Youth di Chor Yuen, 1969, la droga è una realtà amara, qui Leslie Cheung finge solo di sniffare la trielina. I riferimenti sono evidenti: Teddy Girls di Lung Kong, 1969; Girl Wanders Around di Yeung Kuen, 1970; Social Characters di Chan Wan, 1969; The Prodigal, ancora di Chor Yuen, 1969; Waste Not Our Youth di Ng Dan, 1967.
Il quartetto di adolescenti viene giostrato dalla regia secondo uno schema matematico, ABBC, dove i due opposti contrastanti, collocati al limite, sono Pat Ha (la dama sofisticata) e Ken Tong (il «gu wak», l’uomo medio un po’ rozzo), mentre al centro ci sono due meteore equivalenti, una via di mezzo tra culture discordi che mediano il contrasto intellettuale. Non a caso, ed è qui che il dilemma trova la sua risoluzione, solo questi ultimi sopravvivono, perfette creature progredite capaci di adattarsi e di non farsi abbacinare da (falsi) miti e influenze altrui, veri cantonesi esuli in patria ma al tempo stesso icone nazionali di un paese in fermento.

Note

1. Cfr. in proposito il saggio di Mary Wong nel volume .
2. Ng Chi, «Nomad: Flirting with Japanese Chic», citato nel saggio di Mary Wong (op. cit., p. XX).
3. Esemplare uno scambio di battute in merito. «Ma il kabuki è ancora di moda?» Risposta, scontata: «Le cose belle non passano mai di moda».
4. Rex Wong, «Looking for Rebels in Sixties Cantonese Movies», in Law Kar (a cura di), The Restless Breed: Cantonese Stars of the Sixties, Hong Kong, Hong Kong International Film Festival, 1996, pp. 92-94.
5. Tornerà negli stessi panni, invecchiato di una decina d’anni, in Days of Being Wild di Wong Kar-wai, del 1990, quasi un sentito omaggio a Nomad. Certo molto più sincero del remake ufficiale, Rumble Ages, girato da James Yuen nel 1998, che con l’originale ha poco da spartire quanto a tecnica e cuore e che pare una brutta copia di Young and Dangerous popolata da giovani sbandati in cerca d’autore.

Matteo Di Giulio

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