COLOR OUT OF SPACE [SubITA] 🇺🇸

Titolo originale: Color Out of Space
Paese di produzione:
Anno: 2019
Durata: 111 min.
Genere: Horror, Fantascienza, Visionario
Regia: Richard Stanley

Color Out of Space non è solo uno dei migliori adattamenti dichiarati delle opere di H.P. Lovecraft, e neanche solo l’oggetto di culto per i fan di Nicolas Cage che mancò Mandy (con cui pure questo film stringe rapporti stretti). È soprattutto l’opera grazie alla quale torna a dirigere Richard Stanley, nel suo primo lavoro di finzione a ventitré anni di distanza dai disastri e dagli intrighi di The Island of Dr. Moreau.

Sognare è allevare un alpaca
Nathan Gardner convince la sua famiglia ad andare a vivere in una dopo che sua moglie Theresa ha subito una mastectomia. Lì potranno allevare alpaca e coltivare pomodori. La scelta però non è accolta con entusiasmo dai familiari, proprio a partire dalla consorte che non ha modo, consulente finanziaria sperduta senza internet nell’America rurale, di seguire i propri clienti in modo appropriato. Ma l’insoddisfazione di Theresa e dei loro tre figli non è nulla rispetto a quello che sta per accadere… [sinossi]

Le prime inquadrature di Color Out of Space sono sufficienti a marcare l’enorme distanza tra questo film e Mandy di Panos Cosmatos, assurto al ruolo discutibile di oggetto di culto già a ridosso della proiezione al Festival di Cannes, nel maggio del 2018. Entrambi i film si aprono sulle immagini di un bosco, ma se Panos Cosmatos si faceva già prendere la mano ricorrendo a un movimento dall’alto sugli alberi contrappuntato da Starless dei King Crimson, Color Out of Space si “limita” a una ripresa dal basso, che mostra l’imponenza della natura, prima di un passaggio in rassegna di dettagli del sottobosco, dalla corteccia degli alberi fino alla pioggerellina leggera che punzecchia uno specchio d’acqua. Una scelta quasi opposta, così come in totale opposizione appare questo adattamento di uno dei capolavori di H.P. Lovecraft rispetto al film di Cosmatos: eppure i due hanno in comune le stesse case di produzione, la Xyz Films di Aram Tertzakian, Nate Bolotin e Nick Spicer, e la SpectreVision fondata nel 2010 da Elijah Wood insieme ai registi Daniel Noah e Josh C. Waller. Così come comune è l’attrazione per la monocromia tendente al porpora, anche se solo con Color Out of Space questa deriva estetica è sorretta da una motivazione forte anche in fase di sceneggiatura. Le prime inquadrature fungono poi da cerotto, da tentativo di medicazione per uno strappo lungo ventitré anni, il tempo intercorso tra il film e il maledetto set di The Island of Dr. Moreau, quando Richard Stanley venne cacciato e sostituito di peso da John Frankenheimer dopo una sola settimana di riprese. In quel momento – così traumatico da giustificare persino un documentario, l’interessante Lost Soul: The Doomed Journey of Richard Stanley’s Island of Dr. Moreau, che David Gregory diresse nel 2014 – si interruppe il rapporto tra Stanley e il cinema. Certo, in questi due decenni il regista sudafricano ha comunque diretto qualche documentario e sceneggiato un paio di film (The Abandoned di Nacho Cerdà, per esempio, ma collaborò non accreditato anche allo script di Imago mortis di Stefano Bessoni), ma il suo distacco dalla regia inn proprio per quel che concerne le opere di finzione è stata una vera e propria lacerazione. Sottocutanea e poco dolorosa, per i più, ma ancor più evidente se si ha l’occasione di posare finalmente gli occhi su Color Out of Space.

Lo si è scritto e ribadito in molte occasioni: tradurre in immagini la potenza letteraria di H.P. Lovecraft è impresa cui dovrebbero tendere solo i più arditi, pena un colossale fiasco. Lo dimostra Underwater di William Eubank, in questi giorni nelle sale italiane e vagamente ispirato a La chiamata di Cthulhu. Non è casuale, d’altro canto, che ad avvicinarsi maggiormente allo spirito lovecraftiano siano stati spesso film non desunti dalle sue opere ma immersi nello stesso mood, nel medesimo brodo primordiale (ancestrale, verrebbe da dire): si pensi in tal senso a La cosa e Il seme della follia di John Carpenter, per esempio, o Pontypool del canadese Bruce McDonald. Ma Stanley, che pure guarda a Carpenter come a uno dei suoi riferimenti ideali – ed era evidente già ai tempi di Hardware e Demoniaca – non ha timore di confrontarsi direttamente con la pagina scritta. Lo testimonia fuor d’ogni ragionevole dubbio la scelta di aprire e chiudere la narrazione, in un film che costringe lo spettatore al confronto diretto con quel che avviene in scena, con le parole del racconto, pur editate alla bisogna. Ecco dunque che sullo scenario naturale già evocato in apertura di recensione irrompe la voce narrante che annuncia (nella traduzione ci si affida qui a quella a cura di Sebastiano Fusco e Gianni Pilo per il volume Le storie del ciclo di Cthulhu. Il mito): «Le montagne ad ovest di Arkham si ergono ripide, e vi sono delle valli ricoperte di fitti boschi che non hanno mai conosciuto la scure. Ci sono anfratti stretti e bui dove gli alberi hanno delle bizzarre inclinazioni e dove gli esili ruscelletti filtrano senza mai riflettere la luce del sole». La voce narrante salta alcuni passaggi del testo e vola diritto a «Quando arrivai sulle montagne e nelle valli per dirigere i lavori del nuovo bacino, mi fu detto che quel luogo era maledetto. Me lo dissero ad Arkham, e poiché Arkham è una città antichissima e piena di leggende, pensai che nel corso dei secoli quella l’avessero narrata le nonne ai bambini», per poi concludere con «Poi vidi quell’oscuro intrico di anfratti e di pendii che si stende verso ovest, e smisi di interrogarmi su qualsiasi cosa che non fosse il suo antichissimo mistero».

L’adesione così evidente di Stanley al testo originario non deve però far supporre di trovarsi a tu per tu con un lavoro passatista, d’antan, dichiaratamente vetusto. Anzi, è vero l’esatto contrario. La scelta di affidarsi direttamente alle parole che Lovecraft scrisse nel 1927, anno di pubblicazione de Il colore venuto dallo spazio, stanno lì a testimoniare la fonte, la sorgente zampillante e allo stesso tempo a circoscrivere un campo ideale. Stanley apre il suo terzo lungometraggio – sarebbe stato il quarto, se l’adattamento di H.G. Wells non gli fosse stato strappato con violenza dalle mani – con immagini della natura incontaminata, le sovrasta con le parole di un racconto vecchio quasi di cento anni e per concludere inizia la sua vera narrazione con una giovane che a cavallo di un bianco destriero va a compiere un rito magico a ridosso delle rive di un fiume. Tutto potrebbe far pensare a una volontà di staccarsi dal contemporaneo, per rifugiarsi nel caldo protettivo e antico del gotico, ma c’è un dettaglio che spariglia le carte e che si evidenzia davanti agli occhi degli spettatori durante l’elegante movimento di macchina che serve ad arrivare alla giovane Lavinia – nel testo di Lovecraft i figli del protagonista sono tutti maschi, qui sono due maschi e una femmina: una scelta che rimarca la sottile ma percepibile distanza tra adattamento e sudditanza culturale. Uno dei simboli wicca appesi ai rami degli alberi per propiziare il rito è stato ricavato dalle gambe strappate di due Barbie… È qui, con l’ingresso in scena dapprima di Lavinia e quindi dell’idrologo Ward Phillips (aggiungendo Ho davanti al nome proprio si arriva a leggere Howard Phillips, i due nomi da cui derivano le celeberrime iniziali H.P. che da sempre connotano Lovecraft), che Color Out of Space esce dalle pagine del romanziere statunitense per diventare immagine. E che immagine! Forse stimolato dal ritorno in prima persona nella direzione di un film dell’orrore Stanley dà sfogo a tutte le proprie pulsioni visionarie, distorcendo l’elemento naturale, divertendosi a giocare con la deformazione dell’immagine, con la monocromia, perfino con gli standard abusati del genere – la discesa in cantina del capofamiglia Nathan, per prendere una bottiglia di vino, sembra preludere a retaggi à la Raimi immediatamente censurati – o con la sua palese persistenza. Non c’è ridondanza alcuna nella presenza in scena di una copia del Necronomicon, lo pseudobiblion che Lovecraft attribuì all’arabo pazzo Abdul Alhazred, perché non è frutto di un godimento prettamente fanatico, ma della necessità di lavorare a una costruzione ambientale prima ancora che direttamente orrorifica.

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Per quanto gli effetti speciali e i trucchi pensati per la messa in scena del mostruoso siano ricchi di inventiva, coraggiosi, persino vintage nel loro riferimento all’epoca d’oro del body-horror, il loro ingresso all’interno della è anticipato da un lungo preambolo, in cui ogni inquadratura nasconde un’insidia, un’angoscia tenuta nel segreto della propria mente. Lavora ai fianchi i propri personaggi, Stanley, senza però mai abbandonarli. E se la figura dell’idrologo serve a evitare che si speculi sull’effettiva realtà di ciò che sta avvenendo, Color Out of Space progressivamente sposta con persistenza lo sguardo sulla famiglia Gardner, che è scappata dalla grande metropoli per rifugiarsi in campagna, lontano dal tonitruante traffico, dagli impegni stressanti, dalla al lavoro. Morte che i Gardner portano quasi con loro, perché a un tumore è sfuggita la moglie di Nathan, Theresa, ma ha dovuto lasciar dietro di sé il proprio seno, il simbolo della maternità e della femminilità. Ognuno dei Gardner, da Nathan che vorrebbe ritrovare se stesso allevando alpaca e coltivando pomodori fino ai due figli adolescenti e al terzo più piccolo, è alla ricerca della propria identità. Una ricerca priva di un reale fondamento, sradicati come sono stati dal loro mondo, trapiantati in un posto antico e naturale, ma non per questo amico. Anche se la minaccia qui arriva dallo spazio, portata da un meteorite che ha dentro di sé il potere di suggestionare e portare alla follia l’umano, quella stessa follia è già negli occhi dei Gardner, fuori dal mondo prima ancora che arrivino gli alieni. In questo raddoppio della poetica di Lovecraft Color Out of Space trova uno dei suoi significati più profondi, muovendosi in linea e allo stesso tempo negando quel folk-horror che tanta parte sta avendo nell’immaginario di questi ultimi anni. L’ancestrale esiste, ed è insondabile nella sua profondità cosmica, ma può essere narrato nella finzione scenica attraverso le musiche di Mayhem o di Burzum (di quest’ultimo si sente la virulenta Feeble Screams from Forests Unknown), o trovare spazio negli occhi deliranti di Nicolas Cage. Quest’ultimo, altro anello di congiunzione tra Color Out of Space e il film di Cosmatos di un paio di anni fa, è l’elemento detonatore definitivo: raggelando la propria propensione allo squilibrio attoriale, Cage trova nella duplicità di un’anima dolcissima e prossima alla follia un equilibrio insospettabile. Come la scelta cromatica, così anche il senso psicologico del film trova una propria tonalità unica, ma anche difficile da ricondurre ad altro. Stanley non è un procacciatore di visioni alterate per sbandate da luna park, ma un autore. Nel suo deliquio e nell’estremizzazione di ciò che prende corpo in scena si percepisce una poetica profonda, radicale, che ha piena consapevolezza estetica e produttiva di sé. Per niente prono di fronte alla prassi contemporanea, Stanley dona nuova dignità a un modello cinematografico – quello del già citato body-horror degli anni Ottanta, che ha maestri ampiamente riconosciuti come David Cronenberg e Shinya Tsukamoto (la donna/ragno, che deve molto all’Aracne schizzata da Gustave Doré per il Purgatorio di Dante, è anche parente stretta di uno dei demoni di Hiruko the Goblin), ma deve molto ai vari Stuart Gordon, Brian Yuzna, Clive Barker, Frank Henenlotter, nonché George Pan Cosmatos, il padre di Panos che diresse nel 1989 Leviathan – per molti considerato superato, se non addirittura morto. In questa ripresa c’è invece anche la volontà sentimentale di ricucire il tempo, di annullare quei ventitré anni di assenza, di ritrovare il cinema di un’epoca meno attratta dalle lucine del parco giochi e più pronta a confrontarsi con gli abissi dell’animo, della mente, perfino del non-umano. Color Out of Space non è solo uno dei migliori adattamenti dichiarati delle opere di H.P. Lovecraft, e neanche solo l’oggetto di culto per i fan di Nicolas Cage che mancò Mandy. È soprattutto l’opera grazie alla quale torna a dirigere Richard Stanley, e a riprendersi il proprio posto nella del cinema horror. Finalmente.

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By Anam

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