
Titolo originale: Kommunioun
Paese di produzione: Lussemburgo, Belgio
Anno: 2022
Durata: 98 min
Genere: Horror, Drammatico, Thriller
Regia: Jacques Molitor
Elaine, madre single, vive a Lussemburgo con suo figlio Martin, un bambino problematico e violento. Quando le cose iniziano a degenerare e Martin mostra comportamenti sempre più aggressivi e inspiegabili, la donna decide di portarlo nella campagna belga, dai suoceri che non ha mai conosciuto: la famiglia paterna, contadina e misteriosa. Ma lì scoprirà che nel sangue del figlio scorre qualcosa di antico e predatorio: un’eredità oscura che non potrà più essere negata.
Ci sono film che usano il soprannaturale come metafora, e film che lo rendono carne, sangue e ossa. Wolfkin appartiene al secondo tipo. Con una lentezza ipnotica e una regia controllata, Jacques Molitor ci trascina in un incubo rurale fatto di istinti repressi, madri in crisi e metamorfosi interiori che diventano corpi lacerati. Ma non lasciatevi trarre in inganno dall’impianto orrorifico: questo è prima di tutto un film sull’eredità – genetica, culturale, emotiva. E su cosa significa davvero essere genitori.
Elaine è una madre in trincea. Lotta contro il figlio, contro la scuola, contro una società che emargina tutto ciò che è deviante. Ma la vera battaglia inizia quando decide di tornare alle radici, nei campi immersi nella nebbia dove vive la famiglia del padre di Martin. Lì, il film cambia pelle. Da dramma urbano si trasforma in un gotico rurale, impregnato di superstizione e silenzio, dove il lupo non è solo un simbolo, ma una condizione: genetica e spirituale.
Molitor evita i cliché del licantropismo e punta tutto sull’atmosfera. Niente artigli sotto la luna piena, niente urla trasformative: la mutazione avviene dentro, lenta e inesorabile. Il piccolo Martin è un essere inquietante, con lo sguardo di chi ha già ucciso, ma anche la fragilità di chi non comprende cosa stia accadendo nel proprio corpo. E la madre è costretta a scegliere: reprimere l’anomalia o accoglierla, comprendere che il mostro è anche creatura, che la ferinità non è solo minaccia ma identità.
La regia è sobria, quasi documentaria, e lascia spazio agli spazi: casolari decrepiti, cucine gelide, boschi che sembrano immobili ma osservano. Il silenzio è più potente di qualunque colonna sonora. E nel cuore del film, un’idea scomoda: la civiltà è un costrutto fragile, e la famiglia un’illusione. Quando il sangue chiama, le convenzioni crollano.
Il finale non è consolatorio. Non cerca redenzione, ma trasformazione. Wolfkin non è una parabola sull’integrazione del diverso, ma sull’accettazione del lato oscuro – dentro di noi, nei nostri figli, nei nostri nomi di famiglia. E ci dice, con una crudezza senza isteria, che forse l’amore più autentico è quello che accetta l’inevitabile.
