MISTER LONELY [SubITA]

Titolo originale: Mister Lonely
Nazionalità: Francia, Irlanda, UK, USA
Anno: 2007
Genere: Commedia, Drammatico, Grottesco
Durata: 112 min.
Regia: Harmony Korine

[Film non uscito nelle sale italiane] A Parigi, un sosia di Michael Jackson conosce un’imitatrice di Marilyn Monroe, innamorandosene. Da lì, la segue in una comune nelle Highlands scozzesi, dove ciascun adepto impersona una celebrità realmente esistente o esistita.

And the circus leaves town
Lontano dalla putrescente opera prima (Gummo) e dall’infernale psicodramma chiamato a bissarne la disperazione (Julien Donkey-Boy, primo Dogma americano), Mister Lonely addolcisce di colpo gli umori caustici e incendiari che resero Korine autore di culto, narcotizzandone i fiotti d’iconoclastìa in sbilenca favola (avant)pop e rassettando con zelo inatteso il tessuto narrativo sdrucito, già esploso in tornado linguistico e tourettico. Pur mosso da due plot-lines distinte e distanti (il viaggio iniziatico del sosia Michael e la missione panamense di Herzog), il film di Korine è tanto coerente nel tematizzare illusioni sorelle (celebrità e divinità) quant’è lineare -e convenzionale- nel seguire la sofferta maturazione di Michael, da controfigura a protagonista della propria vita. L’opera più stravagante dell’americano, imbellettata dall’ibrido arrischiato e seducente di preziosismo e(d esibita) naiveté, è anche, paradossalmente, la più leggibile, eccessiva nell’accumulo arty di frivolezze tramiche e visive ma risaputa nel midollo da dramma identitario (palesato, a rischio didascalismo, dalle sottolineature psicologiche in voice over). Anche formalmente, Mister Lonely non sanguina come i film precedenti – non brucia insieme alle sue figure (la grana collassata e formicolante di Julian Donkey-Boy), non si decompone in sudicio mosaico di formati e interferenze (l’osceno collagismo di Gummo, poi replicato dal letamaio paleo-analogico dell’ultimo Trash Humpers); obbediente a una struttura meno episodica e free-form, abbina alle arie fiabesche del racconto di formazione il pacato incedere per quadri tersi e composti, ammorbiditi dalle radiose tinte pastello e dalle musiche sognanti e lisergiche (al solito eccezionali, frutto del sodalizio tra Sun City Girls e J. Spaceman, ex Spiritualized). Ma a dispetto dell’ironia blasé di cui pare impregnata, sarebbe limitante ridimensionare l’hilarotragoedia di Korine ad eccentrico bozzetto sul predominio della mitologia pop, poiché, perdonàti certi quadretti da freddura post-moderna (la liason tra il Papa e la regina Elisabetta, interpretata a sua volta da Anita Pallenberg, ex fiamma di tre Stones) e, più in generale, il compiaciuto abuso dei suoi (simil-)divi (il sadismo con cui ridisegna Chaplin, quasi un rigurgito hitleriano in calce alla rivincita iconica analizzata da Bazin), diviene chiaro come l’americano non punti tanto a stravolgere i connotati dell’icona pop, o a demistificarne la portata culturale, ma sia piuttosto interessato a raccontare la desolante solitudine di chi aspira ad incarnarne le sembianze e le doti.

Mister Lonely è, insomma, una storia di sole copie: l’Originale resta fuoriscena, assente e/o irraggiungibile (come il D(est)i(n)o di crudele indifferenza che permette miracoli ma ne ostacola la diffusione). E se l’imbalsamazione in celebrità promette loro riconoscibilità immediata e giovinezza eterna, rivelandone la mancata accettazione di sé e l’ostinato rifiuto di crescere, l’ franca “dove nessuno invecchia” resta un palliativo effimero e impossibile, un’oasi immaginata da chi vuol dimenticare innanzitutto se stesso. Questi impersonatori nevrotici ed emarginati, in attesa di uno spettacolo definitivo che possa riscattarli, ricordano da vicino i protagonisti di Idioti, puerili e disperati a un tempo: la spirale di regressione finisce con l’affondare entrambe le comuni, mentre l’identità di chi ne fa parte, nel tentativo di eludere la propria vita con scuse terapeut(op)iche (Così il mondo sarà migliore, dice Michael, tra sé), è da subito resettata in messinscena (falsamente) liberatoria. È vero che per placidità formale e sdolcinatezza poetica Mister Lonely non potrebbe esser più lontano dal film di Von Trier, ma sotto i vezzi e le levità da commedia surreale la fasulla festosità del formicaio di sosia non è meno sconfortante, e l’ossessiva simulazione di un’altra vita conduce, anche qui, all’inevitabile fallimento (cfr. il determinismo della finale, riflesso della scena ripresa da Quando la moglie è in vacanza, quasi una gioiosa prolessi della morte a venire). Come maschere vuote di un carnevale mesto, gli impersonatori di Mister Lonely non si esprimono mai sulla propria identità e sul proprio passato, insistendo a chiamarsi l’un l’altro con i nomi delle star imitate e rimanendo, anche nei loro tic, figure vaghe e astratte. Si ha dunque l’impressione che la loro profondità sia da ricercarsi, con von Hoffmansthal, alla superficie, e che l’opacità del film sia tanto un limite quanto, a ben vedere, un modesto merito: il travaglio interiore degli imitatori è approfondito di rado, e al posto di caratteri umani credibili sfilano figurine mono-dimensionali, capaci di stillare luoghi comuni emotivi come attori di quart’ordine costretti a improvvisare sul palcoscenico; il motivo, banale quanto si vuole, è che lo sono sul serio – la loro esistenza è essa stessa una finzione integrale, e il ruolo è tutto ciò che hanno, tutto ciò che sono. Nient’altro: la superficie li definisce e li esaurisce (è sufficiente sfregiarli per ucciderli), lasciandoli regredire, svestiti di ogni identità e senza più vita interiore, allo stato di bambini fragili e inebetiti (come il Papa in lacrime, nella vasca da bagno), tenacemente aggrappati alla pretesa infantile che il mondo intero possa giungere, un giorno, ad acclamare il loro show.

Se Mister Lonely sembra fallire nell’intento di raccontare la dolorosa bipolarità dell’imitatore, mostrandone di fatto un solo strato, quello già illuminato, e ridimensionando gli altri a smancerie parassitarie o inverosimili, è perchè si fa esso stesso carico di tale schizofrenia, sfiorando il ridicolo e il patetico con pari disinvoltura, presentandosi burlesco e ridente per celare un senso di abbandono invincibile e, sì, struggente. Il ritorno al cinema di Korine, dopo un lungo periodo di tossicodipendenza e creativa, parla della sua (speranza di) rinascita adulta, esorcizzando in forma di commedia (agra) la nomea d’irriconoscente enfant prodige e il tentativo di venire a patti con la sua stessa fama, ossessione-principe del cineasta sin dal titolo del suo esordio – Gummo, come il meno noto dei fratelli Marx (di nuovo: un comico incompreso, uno scherzo fallito, una promessa incompiuta) -, amplificata da sospetti freakshow mediatici – le comparsate in stato d’incoscienza al David Letterman Show (vero set parallelo, quantomai efficace nel confondere realtà e fiction, come appurato anche da I’m still here), confessata con toni da martirologio allucinato nell’agonia dell’artista sotto teca di Above the Below (il suo documentario televisivo su David Blaine) e culminata, infine, nella ritrovata indipendenza – dal personaggio, dallo script, dalle aspettative proprie e altrui – del (pre-)finale timidamente fiducioso di Mister Lonely, opera dal nichilismo più sottile e introflesso (le ferite esibite da Gummo e Julien Donkey Boy sono ora intime e private, nascoste sotto una crosta iconica amabile e rassicurante). Il film, esattamente come lo spettacolo allestito dai sosia, è dispersivo e spesso pretenzioso, inferiore alla somma di scene – in sé suadenti e autoconcluse – che lo compongono, ma sa farsi delicato e ipnotico, virando al lirismo senza ritrattare l’influenza dei maestri più amati (non mancano il wit bonario e la freddezza iperrealista di Herzog, né l’attitudine da antropologo punk ereditata da Cameron Jamie [§], omaggiato con maggior impeto nel successivo Trash Humpers).

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Un discorso a parte merita invece l’eterea colonna sonora, traboccante di psichedelia e gospel bianco, in grado di magnificare le immagini con odi psych-blues e dolenti litanie di feedback, fedelmente ai mixtape poderosi e inebrianti che accompagnavano i precedenti film di Korine, capace di passare con naturalezza da Dvořák a Jim O’Rourke, dagli Oval a Puccini (Julien Donkey-Boy), o di rovistare, come un Alan Lomax degli anni ’90, nel doom e nel black metal più oscuro (la straordinaria colonna sonora di Gummo), peraltro anticipando di almeno un decennio lo sdoganamento di quest’ultimo in ambito indie. Le scene più intense di Mister Lonely sono, non a caso, momenti di eccelsa (video)musicalità, come il macabro canto a cappella di Rachel Korine (Red Riding Hood’s Hangman), il celestiale volo delle suore, o, ancor più, la corsa sulla moto in miniatura (con l’inseparabile, burroughsiana “scimmia sulla schiena”, vedi incipit ed excipit), un sontuoso tableau appena bagnato di movimento, vicino ai ralenti oppiacei che informano i suoi (pochi) videoclip – Sunday dei Sonic Youth (special guest Macaulay Culkin, altro wunderkind sacrificato alla causa dello Spettacolo) e Living Proof di Cat Power (dove il self è idolo crocefisso) – e agli squarci di danza (e)statica a cui spesso si prestano i suoi film – Glenn degli Slint a colare sangue insieme a Blaine, in Above the Below, o il ballo di Herzog con maschera anti-gas, sulle sonorità bluegrass di Dock Boggs, in Julien Donkey-Boy – , portati poi a loro (cacofonico) compimento nel disturbatissimo Trash Humpers, sorta di delirante musical senza musica. Così i personaggi di Korine, in Mister Lonely e altrove: congelati in ralenti mozzafiato, paralizzati come corridori zenoniani (v. No more workhorse blues di Will Oldham) si pietrificano in corpi estranei e (già) reificati, volteggiano in loop suicidi come dischi inceppati, e cadono sfiniti, in tentativi epici e grotteschi di scampare a se stessi.

Recensione: spietati.it

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By Anam

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