DIVINE INTERVENTION (SubITA)

Titolo originale: Yadon ilaheyya
Nazionalità: Francia, Germania, Marocco, Palestina
Anno: 2002
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra, Sentimentale
Durata: 100 min.
Regia: Elia Suleiman

A Nazareth, un anziano palestinese si ammala, dopo aver visto distrutta la sua attività anche a causa dell’occupazione israeliana. Il figlio lo accudisce, ma anche il ragazzo ha dei problemi, essendo innamorato di una palestinese di Ramallah, che per via dei posti di blocco israeliani, può incontrare solo in un parcheggio deserto vicino al checkpoint. La situazione complicata aguzza l’ingegno dell’uomo, che riuscirà a forzare il blocco con uno stratagemma.

Dita della mia Vita

Un campo lungo “alla Gitai”: un uomo inseguito da cinque persone. È Babbo Natale, che, nel disperato tentativo di difendersi, scaglia contro i suoi aggressori (bambini, o poco più) dei pacchetti regalo che stanno uscendo da un’apertura del sacco. Giunto in cima a una collina, l’uomo si ferma: vediamo che ha un coltello conficcato nel ventre (didascalia: “Nazareth”). Inizia con una tagliente rilettura del mito della morte del Redentore (o presunto tale) il film di Suleiman, viaggio nell’attualità mediorientale, decenni distante da quello che viene abitualmente contrabbandato per cinéma reportage. Intervento Divino non tenta ab ovo sulla questione palestinese, ma fotografa (letteralmente, scrive con la luce) l’atroce scherzo in cui si è trasformata la vita in un luogo che, nonostante le (multi)religiose vestigia, è l’inferno in terra. La cronaca, intrinsecamente televisiva e quasi inevitabilmente manichea, si dissolve in un incubo frenetico e grottesco, simile, più che a un diario di guerra, a una sinfonia da camera intessuta di/da leitmotiv (il colpo imprevisto, la sfera, il fuoco, la donna) e strutturata liberamente secondo una scansione legata più al pensiero e all’impulso che allo scorrere del tempo (anche perché, sembra suggerire il regista, l’ora è immobile, ogni atto non è che una ripetizione di un affronto già inflitto e subito). Iterazioni (con variazioni), ellissi, sottintesi, malintesi strutturano una velenosa che si sviluppa in ogni direzione possibile, dalla metafora struggente (l’amore tattile nel parcheggio) alla gag corrosiva (la corsia ospedaliera), dal gioco metalinguistico (lo scheletro dello script sul muro) allo squarcio “documentario”, indimenticabile nella sua atroce (non) simulazione (le angherie al posto di blocco), spaziando senza una traccia di timore (e figuriamoci di riverenza) da Magritte a Matrix, dal glamour pubblicitario agli action (& disaster) movie, dai vicini terribili di polanskiana memoria al musical (il poligono di tiro), al western (il “duello” al semaforo). Non esistono buoni e cattivi, ma voyeur fossilizzati nell’ignavia, incapaci di agire, di amare: solo il sentimento della fantasia (e viceversa) può dare all’uomo l’effimera illusione di libero, di sopra le chiese e le armi, rendendo superfluo un deus ex machina che, con ogni probabilità, non c’è (e se c’è ha di meglio da fare). Immagini superbe, tempi tragicomici perfetti, interpreti sublimi [Manal Khader, giornalista, per caso e amicizia, è bellissima, e sottilmente (auto)ironica], ossessioni indimenticabili (“sono pazzo perché ti amo”), musiche travolgenti, microsequenze geniali, un finale che è al tempo stesso parodia e lirica: Suleiman (anche attore, impassibile e dolente) realizza un autentico sortilegio, proposto nelle sale italiane, per una volta, in versione originale sottotitolata.

Recensione: spietati.it

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By Anam

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