NIGHT ON THE GALACTIC RAILROAD (SubITA)

Titolo originale: Ginga-tetsudô no yoru
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1985
Durata: 116 min.
Genere: Animazione, Avventura, Drammatico, Fantastico, Visionario
Regia: Gisaburô Sugii, Arlen Tarlofsky

Basato su un breve racconto per bambini di Kenji Miyazawa, Galactic Railroad offre agli spettatori un pacato e sognante viaggio attraverso il tempo e lo spazio. Quando Giovanni, un ragazzo solo di un paese di collina, va a prendere il latte per la indisposta, si ritrova ad attraversare la Via Lattea su un treno iper-velocissimo. Le stazioni che visita delle varie costellazioni, offrono curiose avventure e un vasto assortimento di tipologie umane. Il suo viaggio attraverso le ere talvolta suggerisce il viaggio attraverso la vita. I personaggi sono rappresentati come gatti, presumibilmente per evitare problemi nell’animare esseri umani.

Nella cultura giapponese, il racconto di Kenji Miyazawa che dà il nome a questo film è un grande classico, a mio avviso paragonabile a quello che per noi occidentali è il “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry. Gli anime che in qualche modo si sono ispirati all’opera di Miyazawa sono innumerevoli, tant’è che lo scrittore ha avuto una forte influenza sulla poetica di Isao Takahata, Hayao Miyazaki e, in parte, sul brillante “Mawaru Penguindrum” di Kunihiko Ikuhara. Fatta questa doverosa premessa, il film di cui scriverò è un adattamento cinematografico fedele al cartaceo, che ne ripropone l’atmosfera inquieta e sognante con fare molto riflessivo, lento, denso di quel tipico sense of wonder delle fiabe per bambini. Il regista alla guida di questa monolitica trasposizione è un vero e proprio veterano dell’animazione old school, Gisaburou Sugii, un nome – purtroppo – misconosciuto ai più il quale nel corso della sua ha lavorato in adattamenti animati di opere seminali del calibro di “Tetsuwan Atom”, “Dororo”, “Glass no Kamen” e “Genji Monogatari”.

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Per chi scrive vale la pena spendere qualche parola sulla storia di Giovanni e Campanella (rappresentati da Sugii come due antropomorfi, nonostante nelle opere originali di Miyazawa i felini raffigurassero prevalentemente personaggi negativi); i protagonisti di “Ginga Tetsudou no Yoru” sono due bambini che all’improvviso si ritrovano faccia a faccia con la perdita, con la percezione della morte – resa alquanto affascinante dal talento visionario di Miyazawa. I due si ritroveranno a viaggiare sopra un treno in grado di volare in un’immaginifica Via Lattea cosparsa di simboli religiosi, persone che scompaiono nel di punto in bianco, cacciatori che raccolgono a braccia aperte uccelli dal sapore di zucchero, che volano eleganti in una danza di suoni eterei densa di malinconia. Il racconto originale del poeta giapponese, infatti, era stato scritto dopo ch’egli aveva perso la tanto amata sorella, ed è una personalissima riflessione sul ciclo dell’esistenza, densa di allegorie talvolta impenetrabili. La risposta all’eterno dilemma che tanto tormenta l’uomo sin dalla notte dei tempi in questo caso viene dal buddhismo, del quale Miyazawa era un fervente sostenitore. “Ginga Tetsudou no Yoru” è quindi un’opera per nulla banale, da assimilare col cuore di un bambino e l’esperienza di un’adulto.

L’opera contiene alcuni elementi autobiografici del regista, che per un periodo della sua durato una decina d’anni aveva abbandonato ogni cosa, inclusi e famiglia, al fine di girovagare solitario per il Giappone a bordo di un vecchio treno. La memorabile scena in cui Giovanni osserva malinconico da un’altura distante la che sta avvenendo nel villaggio, riflette pienamente il sentimento di “distacco dagli affetti” provato da Gisaburou Sugii durante i suoi solitari viaggi giovanili; non stupisce pertanto il fatto che per il grande artista, “Ginga Tetsudou no Yoru” si tratti del suo progetto meglio riuscito, tant’è che a suo dire, la dello staff durante la lavorazione del lungometraggio era diventata un’unica cosa, un’indivisibile unità carica di armonia.

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Preso come film in sé stesso questo adattamento risulta quanto mai giapponese, sia nella forma che nella sostanza; gli eventi procedono con immane lentezza, e viene data una grande attenzione a piccolezze e particolari apparentemente insignificanti, i quali potrebbero sfuggire allo spettatore occidentale occasionale. Lunghi silenzi alternati a sguardi che fissano nel vuoto, una generale tendenza alla cupezza ed alla pesantezza, sono elementi che caratterizzano una pellicola decisamente ostica per chi cerca del puro intrattenimento fine a sé stesso. Il dramma che si respira in questo macigno cinematografico è decisamente atipico, riflessivo; ogni scena pare appositamente dilatata per trasmettere una granitica e silenziosa inquietudine, che si agita in sterminati spazi dal colore della pece, spazi in cui è facile smarrirsi, risucchiati dal sognante dell’eterno danzare della e della morte.

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By Anam

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