MORTE DI UN MATEMATICO NAPOLETANO

Titolo originale: Morte di un matematico napoletano
Nazionalità: Italia
Anno: 1992
Genere: Drammatico
Durata: 108 min.
Regia: Mario Martone

Il film narra l’ultima settimana di vita prima del del matematico napoletano Renato Caccioppoli. Matematico di grande fama, distrutto dall’alcool, dalle disillusioni e dal mal di vivere.

Per raccontare il lungometraggio Morte di un matematico napoletano è necessaria una premessa che abbracci due altre storie. Una è quella del regista Mario Martone, al suo esordio cinematografico proprio con questo film. Nel 1986 con la sua compagnia teatrale Falso Movimento, si aggrega alla compagnia Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller e a quella del Teatro Studio di Caserta, di Toni Servillo, creando quella che prende il nome di Teatri Uniti. Da quel momento inizia un percorso artistico, che lo porterà ad approdare anche sulle sponde del Cinema. E Martone arriva al grande schermo con il desiderio di rispolverare una travagliata e affascinante storia di vita. Ed ecco il secondo laccio di questa premessa. Renato Caccioppoli nasce a nel 1904 sotto una stella irrequieta. La madre infatti è la figlia del noto pensatore anarchico Michail Bakunin. Si laurea in Matematica a soli 21, un indiscusso nel suo campo, ma persona eclettica. Amante della letteratura, del cinema, della musica ed ex militante comunista. Nel 1959 si suicida nella sua casa, dopo avere attraversato in poche ore la sua vita, i suoi affetti, i segni lasciati.

In questo film si affianca al protagonista – interpretato con marcata influenza teatrale da Carlo Cecchi – e spesso lo ingloba e gli permette di scivolare tra i suoi vicoli. Volendo interrogare gli studi mitologici, Napoli appare una città-labirinto, simbolo che può significare attrazione per la curiosità e la sete di ricerca, ma allo stesso tempo tunnel soffocante e geometricamente violento. Napoli è culla per cervelli creativi (e spero che non smetta mai di questo mito, motivo di perenne fascinazione), ma è anche girone di dannati che non riescono più ad aggrapparsi alle sue mura scivolose ed umide. Caccioppoli è uno di quei dannati che a hanno trovato nascita e vita, ma nello stesso grembo hanno deciso di abbandonarsi. Come dice lo stesso Martone in un’ a Bruno Ruberti (rintracciabile nell’appendice al libro che del film riporta interamente la sceneggiatura), il giallo è il colore che predomina negli schizzi fotografici di questa pellicola. Giallo come il sole del mattino che rende la città un pezzo di oro sotto il cielo e giallo come la malattia, la peste del malessere che infetta e crea una bolla in cui tutti sono costretti a vivere e a reagire.

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In questa ultima settimana di vita il protagonista, imbottito di alcool e di collera, vaga nella sua vita senza cercare. Sembra che l’unico suo obiettivo sia quello di riguardarla, lasciarsi riempire gli occhi per l’ultima volta, provando a ripercorrerla per poi giungere al punto di partenza che diventa fine. Martone fa camminare il Matematico, lo fa stancare, lo fa vagare. Trasporta il suo corpo in una città che conosce i suoi figli più di quanto loro conoscano lei. Ma questo camminare incessante non è altro che la fisicità dell’impazienza intellettuale di Caccioppoli. Un’impazienza rintracciabile in una battuta del protagonista “Guarda che quelli che si limitano saggiamente a ciò che pare a loro possibile non avanzeranno mai di un passo”. Un inno alla delle menti libere ed un inno triste alla città Partenopea, sorgente da cui sono sgorgate le menti migliori del nostro Paese. E forse proprio per quest’ultimo riconoscimento, indigeribile è risultato il secondo premio della giuria di Venezia nel 1992. Morte di un matematico napoletano rimane una delle tante opere prime del italiano, che consiglio vivamente di liberare dalla polvere della disattenzione, soprattutto perché i tesori di sono e saranno sempre più umani che architettonici o artistici. Renato Caccioppoli, con la sua malata magrezza, il suo errare disincantato, i suoi abiti logori, è una delle tante preziosità da conservare nelle credenze della memoria collettiva.

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Meglio riesco ad osservarlo se prendo in prestito i primi versi di “Ma Bohème”, una delle più belle poesie di Rimbaud – suo poeta prediletto –

“Je m’en allais, les poings dans mes poches crevèes;/Mon paletot soudain devenait ideal;/ J’allais sous le ciel, Muse, et( j’etais ton fèal;/ Oh! Là là! Que d’amours splendides j’ai revèes!(…)” [trad: “Me ne andavo/ i pugni nella tasche sfondata;/ anche il mio paltò diventava ideale;/andavo sotto il cielo, Musa, ed ero il tuo fedele;/perbacco, quanti amori splendidi ho sognato! (…)” ]

Recensione: ilcinemabendato.wordpress.com

By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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