FALLEN ANGELS [SubITA]

Titolo originale: Duo luo tian shi
Nazionalità: Hong Kong
Anno: 1995
Genere: Drammatico
Durata: 91 min.
Regia: Wong Kar-wai

Sono passati centocinquantacinque giorni da quando Killer ha cominciato la sua attività per Agent. Lei – Agent – fa le sue prenotazioni e ripulisce dopo il “lavoro”, e tutto fila liscio. Però Agent comincia ad essere un po’ ossessiva nei confronti di Killer. Finché un giorno Killer scappa con Punkie, verso una vita avventurosa. “Angeli perduti” è uno sviluppo ideale di “Hong Kong Express”. Doveva essere il terzo episodio del film precedente, ma fu abbandonata perché lo avrebbe reso troppo lungo. Qui diventa l’asse portante degli intrecci di una realtà metropolitana sempre più schiacciata dalla solitudine individuale, tanto opprimente da non trovare neanche lo sfogo della tragedia. Wong Kar-Wai sa sorridere amaro e trasmette con discrezione la sua idea del mondo.

Nel suo continuo ripercorrere gli stessi tematici e narrativi mediante un raffinato gioco di variatio delle coordinate circostanziali, il cinema di Wong Kar-wai è andato costituendosi nel tempo come un organismo articolato ma coerente, e contraddistinto soprattutto da un cospicuo grado di intertestualità. Se il peculiare rapporto che lega i due film dedicati alle malinconiche vicende del signor Chow – In the Mood for Love [Fa yeung nin wa, 2000] e 2046 [id., 2004] – si spinge fin quasi alla riproposizione shot for shot di situazioni e momenti in funzione ormai mitizzante, dando la misura del livello di osmosi testuale raggiunto dall’opera dell’autore di Hong Kong, la trama di studiate allusioni che ne attraversa l’intera filmografia trova un picco significativo già nel dittico composto da Hong Kong Express [Chung hing sam lam, 1994] e Angeli Perduti [Do lok tin si, 1995]1. I richiami e i contrappunti che innervano le due pellicole investono tanto lo storyworld rappresentato2 quanto le strategie narrative, l’impalcatura strutturale di episodica e le soluzioni linguistiche adoperate, al punto che la ricezione critica ha spesso collocato Angeli Perduti – l’oggetto della nostra analisi – in una posizione ancillare3 all’interno del dittico, consigliata in ciò senz’altro anche dal processo di gemmazione che ne ha costituito la genesi. Frutto dell’elaborazione di materiale destinato in origine a confluire in Hong Kong Express, il film porta alle estreme conseguenze le premesse tematiche e stilistiche della poetica wonghiana, configurandosi in realtà come una delle opere più consapevoli del suo periodo preclassico.

A fornirci una pietra di paragone è ancora una volta il capo d’opera della maturità In the Mood for Love, che reca in esergo e in calce due cartelli4 contenenti forse la raffigurazione più icastica e pregnante dell’universo poetico di Wong Kar-wai. Le due immagini liminari si pongono come vere e proprie formulazioni drammatiche di un programma di forma e contenuto perseguito con sistematicità dal regista fin dai tempi di Days of Being Wild [Ah fei zing zyun, 1990] – seppur modulandolo secondo una progressiva irreggimentazione della messinscena in senso geometrico-analitico – e ci consentono di estrapolare con un certo margine di sicurezza i caratteri fondanti della cifra wonghiana. Al cuore del discorso dell’autore cinese s’impone innanzitutto con prepotenza la tematica esistenziale, imperniata su una mesta e sofferta riflessione sul tema dell’incomunicabilità e della sostanziale solitudine cui, nonostante il suo disperato e costante anelito all’amore, è inevitabilmente condannato l’essere umano, in special modo nel contesto alienante e spersonalizzante della moderna megalopoli in caotico fermento. Tale sensibilità elegiaca procede parimenti dall’insistito richiamo alla fugacità di tutte le cose, che elegge a primo ed ultimo attante e oggetto privilegiato d’interesse il tempo5, proustianamente considerato nella sua dimensione soggettiva di proiezione elastica interna all’animo dei protagonisti6: di qui l’importanza della e del vagheggiamento, del recupero nostalgico e della protenzione verso il futuro. La sovrapposizione di un filtro interiore alla realtà ha altresì evidenti ricadute stilistiche, ben rappresentate dalla figura del vetro impolverato che conclude In the Mood for Love: il cinema di Wong Kar-wai predilige una messinscena fondata sull’opacità e la distorsione prodotte da uno sguardo perennemente avvolto dalle nebbie di una debordante soggettività.

Angeli Perduti si rapporta a queste costanti all’insegna dell’accumulazione e dell’eccesso iperbolico, calcandone i tratti con una violenza e una disinvoltura tali da sfiorare la caricatura e alimentando in tal modo l’equivoco di una sua presunta autoreferenzialità di maniera, che tanta parte ha avuto nel condizionare negativamente i giudizi di vari critici alla sua uscita7. Secondo Silvio Alovisio8, la radicalizzazione trasversale che opera nel film sarebbe da ricondurre principalmente al successo planetario conosciuto da Hong Kong Express e alla volontà del regista di scongiurare in via preventiva le eventuali derive apocrife in cui sarebbe potuta incorrere la sua poetica, mediante il ricorso ad un’esasperazione impossibile da contraffare o tantomeno trascendere. In questo senso, il rimproverato manierismo di Angeli Perduti viene dunque a coincidere con un imprescindibile momento di autoriflessione e consapevolezza teorica, senza il quale non ci paiono nemmeno pensabili l’evoluzione stilistica e l’approdo alla maturità che segneranno gli anni a venire. Nel prosieguo della nostra analisi ci concentreremo sull’ingombrante ricerca formale che domina la pellicola, mostrando però come essa non vada affatto a detrimento dell’autenticità e della spontaneità del risultato: al contrario, sosterremo che è proprio nell’esuberanza stilistica che l’ispirazione wonghiana trova un veicolo d’espressione di particolare efficacia ed incisività.

Dalla prima all’ultima inquadratura Angeli Perduti esibisce uno sguardo che possiamo interpretare, sulla scorta di una fondamentale categoria introdotta da Francesco Casetti9, come una lunga e ininterrotta oggettiva irreale: la prospettiva adottata non è né distante e impersonale, né calata all’interno della diegesi, ma coincide con quella del mezzo stesso, che è come investito di un’inedita autonomia di manovra e di potenzialità semantiche amplificate e acquista la consistenza antropomorfica di un osservatore sempre presente alla scena, ma secondo vari gradi di coinvolgimento. Tutte le scelte tecnico-registiche del film cooperano alla costruzione di una messinscena in cui la presenza della mdp è resa di continuo manifesta10, a partire dall’uso ossessivo e ipertrofico dell’obiettivo grandangolare, che «[…] sottopone lo spazio filmato a un effetto di straniamento: aumenta la profondità di campo […], accentua la lentezza dei movimenti […], ma soprattutto amplifica la soggettività della visione.»11 e «[…] accresce le distanze tra i personaggi all’interno di uno spazio illusoriamente dilatato […]»12. La ridondanza di focali corte sembra quasi una scelta obbligata per esprimere al meglio l’alienazione metropolitana e l’erranza esistenziale di personaggi le cui vite scorrono su binari paralleli, sfiorandosi secondo i capricci del caso senza mai incontrarsi davvero. La percezione allucinata della realtà che ci restituisce l’istanza narrativa non fa che conformarsi all’instabilità oscillante delle loro interiorità, costantemente protese nella vana ricerca di una felicità inafferrabile e concepibile solo nell’hic et nunc13.

Lo sguardo deformante e la sottolineatura voyeuristica del mezzo sono ottenuti anche attraverso sistematici décadrages, composizioni in slit staging, angolazioni sghembe e ricorrenti primissimi piani decentrati che interloquiscono in vertiginosa profondità di campo con gli elementi dello sfondo, comunicando il distacco dalla contingenza del reale di personaggi proiettati in universi interiori altamente idiosincratici14. Anche la fotografia umbratile di Christopher Doyle va nella stessa direzione, dando vita ad un oscuro impasto di soffuse luminescenze notturne al neon che accosta ad una matrice cromatica sottoesposta abbaglianti finestre di luce artificiale, col frequente inserimento di filtri colorati o superfici traslucide opacizzate ad accrescere il senso di una visione mediata.

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Ma sono soprattutto i movimenti di macchina a valorizzare il protagonismo della mdp, la quale non solo tallona i personaggi nelle loro inquiete peregrinazioni con carrelli a seguire o a precedere, ma più spesso prende l’iniziativa contrapponendo la sua traiettoria alla loro con precipitosi balzi in avanti o all’indietro, andando loro incontro per poi proseguire oltre o viceversa retrocedendo con un effetto stirante. In Angeli Perduti le convulsioni vivaci e frizzanti che produceva l’uso della macchina a mano in Hong Kong Express si traducono in una sorta di ubriacatura prospettica: i movimenti si fanno meno concitati e nervosi, acquistando una fluidità barcollante in perfetto accordo con la precarietà delle esistenze narrate dal film, la mdp spesso ondeggia e traballa dubbiosa nell’approcciarsi ai protagonisti o effettua panoramiche fluttuanti dirigendo altrove la sua attenzione. Quando invece l’istanza narrante si stabilizza in lunghe inquadrature statiche, il suo atteggiamento partecipativo si fa impassibile contemplazione della solitudine o lascia il posto ad emblematic shots che sospendono la progressione diegetica plasmando la dimensione temporale e interpellando lo spettatore mediante voice over.

La temporalità soggettiva tipica del discorso wonghiano si esplica nel ricorrere dei più svariati effetti di accelerazione o decelerazione del tempo della storia: i ralenti e lo step framing dilatano le esplosioni cinetiche delle sequenze d’azione alla ricerca dell’impressione istantanea e dell’individualità – i primi appuntandosi sulla fotogenia di primi piani e dettagli di volti, il secondo perseguendo una stilizzazione del flusso temporale in funzione espressiva – , mentre gli effetti time-lapse visualizzano l’anonimo brulichio senza sonno che fa da scenario alle vicende di uomini e estratti per caso fra tanti.

Il montaggio instaura un confronto dialettico di diretta ascendenza godardiana15 tra le opzioni disorganiche e frammentarie della discontinuità, ottenuta attraverso i bruschi jump cuts, gli scavalcamenti di campo, le ellissi, le ripetizioni e la disgregazione dell’unità spaziale, e l’intrico ermeneutico proprio delle soluzioni del montaggio interno, con ampio utilizzo di long takes e riprese in profondità di campo, ma esalta in ogni caso quella che Silvio Alovisio definisce l’orfananza16 esistenziale dei personaggi, i quali «[…] sono sistematicamente ripresi in inquadrature “orfane”, slegate cioè da una filiazione rispetto ad altri spazi o a una possibile situazione relazionale.»17 e anche quando sono «[…] ripresi all’interno della stessa inquadratura, […] non incrociano gli sguardi […] o addirittura li indirizzano in direzioni opposte […]»18. La totale di raccordi di campo-controcampo nelle sequenze dialogate, sostituiti dalla disposizione dei personaggi su piani differenti o uno accanto all’altro nella stessa inquadratura, è il riflesso stilistico della loro inabilità comunicativa.

A dire il vero, in Angeli Perduti non si assiste mai a veri e propri scambi dialogici, quanto piuttosto a monologhi a senso unico: non appena prende l’avvio un processo relazionale, l’espediente già collaudato della voice over interiore vi si sovrappone troncandolo sul nascere, per abbracciare un singolo punto di vista. I protagonisti e riflettori del film poi, a differenza di quelli di Hong Kong Express, non aprono quasi mai bocca – non solo il muto Ho Chi Moo, ma anche il killer Ming e la sua assistente – , demandando interamente alla propria mentale l’espressione della loro Weltanshauung, dei loro pensieri e delle loro emozioni, e quella che sembrerebbe a prima vista una strategia di interpellazione del pubblico rivela in realtà un ennesimo deficit di comunicazione: a ben vedere infatti, lo spettatore non è il destinatario dei messaggi veicolati dalle voci over dei personaggi focali, ma assiste da clandestino ad una serie di soliloqui interiori che tra l’altro intrattengono con le immagini un rapporto temporale e diegetico nebuloso. L’abbondanza di sentenze aforistiche e i riferimenti cronologici confusi impediscono di collocarli con precisione rispetto alla pista visiva: a volte i pensieri sembrano scaturire direttamente dalla scena mostrata, altre volte proiettano il punto di vista al futuro assumendo la valenza di un commento extradiegetico a posteriori, più spesso la voice over mantiene l’ambiguità senza propendere per nessuna delle due alternative.

La nostra disamina formale ha dunque riscontrato una puntuale legittimazione sul piano semantico ed espressivo del sovradosaggio stilistico che ha fatto parlare di Angeli Perduti come di un’opera valida, ma appesantita da un eccesso di virtuosismi calcolati a tavolino. L’esasperazione della forma è invece direttamente conseguente alla virata di tono che ha rimpiazzato la malinconica leggerezza agrodolce di Hong Kong Express con un registro improntato a una fosca e talora grottesca isteria, che mescola dramma e comicità trattandoli senza mezze misure. Il risultato è un dirompente affresco notturno della post-modernità esistenziale, che nel contempo restituisce una vivida rappresentazione della costitutiva precarietà che definisce la condizione umana in ogni tempo e in ogni luogo.

NOTE
1. Il titolo andrebbe tradotto più propriamente con l’attributo “caduti”, come fa il titolo internazionale Fallen Angels.
2. Tra take away notturni e ananas scaduti, juke-box e appartamenti nelle Chungking Mansions, Angeli Perduti ammicca di continuo all’opera che l’ha preceduto.
3. Cfr. infra, n. 7.
4. «Fu un momento imbarazzante. Lei se ne stava timida a testa bassa per dargli l’occasione di avvicinarsi, ma lui non poteva, non ne aveva il coraggio. Allora lei si voltò e andò via.» In the Mood for Love, cartello introduttivo, trad. it. «Quando ripensa a quegli anni lontani, è come se li guardasse attraverso un vetro impolverato: il passato è qualcosa che può vedere, ma non può toccare. E tutto ciò che vede è sfocato, indistinto.» Ivi, cartello conclusivo, trad. it.
5. La teoria di onnipresenti orologi che percorre la filmografia del regista dà consistenza materiale a tale tematica.
6. «Ho spesso la sensazione che il tempo scorra al contrario, e che il futuro sia alle nostre spalle.» Intervista a cura di Jean-Marc Lalanne e Olivier Nicklaus per «Les Inrockuptibles», 20 ottobre 2004.
7. A fronte di una ricezione critica largamente favorevole a Hong Kong e negli Stati Uniti, il film viene giudicato inferiore ad Hong Kong Express da una parte della critica italiana. Di questo avviso è Alberto Pezzotta, che lo reputa l’«opera meno convinta e convincente» di Wong Kar-wai. Cfr. A. Pezzotta, Wong Kar-wai, «Amarcord», n.1, febbraio-marzo 1996.
8. S. Alovisio, Wong Kar-wai, Il Castoro, Milano, 2010, p. 103.
9. Lo studioso individua quattro macrotipologie di visione: oggettiva, soggettiva, oggettiva irreale e interpellante. Cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano, 1986.
10. La mdp si palesa una volta per tutte quando è investita dagli schizzi di sangue delle sparatorie.
11. S. Alovisio, Op. cit., p. 104.
12. Ibid.
13. L’ultima battuta del film, poco prima che la mdp panoramichi verso il cielo, è resa dal doppiaggio italiano con un’esplicitazione di questo concetto: «[…] Peccato che la strada non sia più lunga. So che comunque finirà presto. Ma, in questo momento, sono felice.», laddove in origine vi era un’affermazione meno perentoria (trad. it.): «[…] sto sentendo un calore piacevole.»
14. Il ripiegamento interiore è spesso segnato dai gesti del mangiare e del fumare, atti solitari che coincidono sempre con un’astrazione del personaggio dalla realtà.
15. Riconducibile alla cosiddetta Second Wave di Hong Kong, il cinema di Wong Kar-wai è fortemente indebitato con le novità introdotte dalle nuove ondate del cinema occidentale. Si pensi al suo stesso modus operandi, che lascia largo spazio all’improvvisazione, come in molti film di Rozier o Rivette.
16. S. Alovisio, Op. cit., p. 110.
17. Ibid.
18. S. Alovisio, Op. cit., pp. 110-111.

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Recensione: specchioscuro.it

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By Anam

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