LE BUTTANE

Titolo originale: Le buttane
Paese di produzione: Italia
Anno: 1994
Durata: 85 min
Genere: Drammatico, Erotico, 
Regia: Aurelio Grimaldi

Sinossi:
Nel quartiere degradato di Palermo, tra vicoli impregnati di solitudine e desiderio, un gruppo di prostitute — le “buttane” del titolo — si muove come un piccolo universo femminile isolato, duro, poetico e violento. Il film segue le loro giornate, scandite da incontri fugaci, confessioni sussurrate e la costante tensione tra sopravvivenza e dignità. Non c’è una vera trama lineare, ma piuttosto un mosaico di vite: donne che si raccontano, che si difendono con il corpo e con la parola, che cercano di dare senso a un mestiere e a un’esistenza in bilico tra rassegnazione e rabbia.

Recensione:
Le buttane è un film che non cerca di piacere, e proprio per questo colpisce con la forza di un pugno. Aurelio Grimaldi costruisce un affresco ruvido, viscerale e malinconico della prostituzione, liberandola da ogni patina di voyeurismo o pietismo. Non è un’opera che vuole redimere o condannare: è un atto di ascolto, un ritratto corale di voci femminili che si impongono come un coro tragico in una Palermo di fine secolo, sospesa tra sacro e profano.

Girato quasi interamente in interni angusti e in esterni lividi, il film adotta un linguaggio secco, quasi documentaristico. La macchina da presa di Grimaldi non abbellisce né distoglie lo sguardo: resta ferma, impietosa, ma anche curiosa e compassionevole. C’è qualcosa di Pasoliniano in questo approccio, un’urgenza antropologica che vuole comprendere l’anima popolare, quella realtà bruta e poetica che vive al margine ma sa ancora esprimere un’umanità autentica. Le prostitute di Grimaldi non sono figure erotiche, ma archetipi di resistenza.

Ogni dialogo, spesso improvvisato, vibra di una verità cruda. Le donne parlano del sesso come di un mestiere, del piacere come di un incidente, della vita come di una condanna. Eppure, in mezzo a tanta amarezza, emergono momenti di ironia, di leggerezza, perfino di tenerezza. C’è una sorta di sorellanza oscura tra loro, un legame che nasce dalla comune consapevolezza di essere invisibili, relegate ai margini non solo della società, ma anche del linguaggio stesso.

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Il titolo — Le buttane — è volutamente provocatorio, quasi una bestemmia. Grimaldi lo usa come atto politico: restituire la parola “puttana” al suo significato nudo, liberandola dal disprezzo, riconsegnandola alle donne che la incarnano. Nel farlo, costruisce una narrazione che oscilla tra confessione e denuncia, tra poesia e brutalità. L’effetto è straniante: il film non ha ritmo nel senso classico, non cerca un climax, ma procede per frammenti, per respiri, come un lungo monologo collettivo sussurrato alla notte palermitana.

La fotografia, povera ma intensa, disegna un universo claustrofobico e caldo, dove il colore della pelle, il rosso del rossetto, il sudore e la luce al neon diventano elementi pittorici di una realtà che sembra dipinta con il sangue. La musica, essenziale, accompagna con discrezione, lasciando che siano le voci — sporche, vive, dolenti — a guidare lo spettatore.

Ma il film non è solo un racconto di miseria. È, soprattutto, un’indagine sulla parola e sul corpo come strumenti di sopravvivenza. Le protagoniste, nel vendere il proprio corpo, difendono la propria identità. In un mondo che le riduce a oggetti, parlano per riaffermarsi come soggetti, per dire “io esisto”, anche se quell’esistenza è segnata dall’abbandono.

In questo senso Le buttane diventa una riflessione sulla libertà: quella che si conquista anche nel degrado, nella sfrontatezza, nel linguaggio osceno che si fa poesia perché autentico. Il film è anche un atto di amore verso il linguaggio dialettale, verso la Palermo viscerale e incompresa, verso la femminilità che resiste persino quando è usata, comprata, derisa.

Aurelio Grimaldi — già sceneggiatore de La discesa di Aclà a Floristella e vicino all’immaginario pasoliniano — riesce a catturare la verità senza moralismi, mostrando il sesso non come spettacolo, ma come atto di economia esistenziale. In fondo, Le buttane parla più di dignità che di vergogna, più di umanità che di peccato.

Il risultato è un film imperfetto, sporco, ma di un’autenticità rara. Nessuna patinatura, nessuna redenzione hollywoodiana, nessuna morale rassicurante. Solo la vita — che puzza, che graffia, che ancora chiede di essere guardata.
In un cinema che tende a edulcorare tutto, Le buttane resta un gesto radicale, quasi sacrilego, un requiem per le voci dimenticate. È un film che si muove dentro la carne, e nella carne trova la sua verità

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By Anam

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