JUDY BERLIN [SubITA]

Titolo originale: Judy Berlin
Nazionalità: USA
Anno: 1999
Genere: Commedia, Drammatico
Durata: 93 min.
Regia: Eric Mendelsohn

 

È il secondo giorno di nella cittadina di Babylon, Long Island, New York. Gli abitanti, casalinghe insoddisfatte, insegnanti amareggiati, aspiranti attrici e ragazzi perdigiorno, sono testimoni dell’arrivo dell’autunno. David, ritornato a casa dei suoi genitori dopo non essere riuscito a sfondare come a Hollywood, incontra una sua vecchia compagna di classe, Judy Berlin, ancora estroversa e carismatica, e ancora convinta di poter diventare una star del cinema. Dave e Judy mentre la cittadina è al buio per un’eclissi di sole cercano di rivivere i loro ricordi e tutto ciò che sarebbe potuto essere.

Mi risuona questa frase nel cranio: “La gente pensa che il cinema sia finzione… non ha capito niente”.
Con chi ne stavo parlando? Non ricordo assolutamente.
“Con un cucchiaio di legno scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria”. Avevo letto delle cose a riguardo. Forse pure studiate. Non mi ricordo. Ma non è male aver dimenticato tutto. Forse è buona digestione.
Che il cinema fosse reale quanto la realtà mi pare ovvio in fin dei conti. È l’espressione “reale quanto la realtà” a non essere ovvia. Un tranello linguistico che indica ambiti di confine come la sinestesia o la metafora. “La realtà continua a rovinarmi la vita”.

Perché la mia ossessione di sempre per il film Judy Berlin? Un motivo era certamente l’acutezza psicologica dei dialoghi, seppur rarefatti, sempre perfettamente identificativi del personaggio. Mi ricordavano le cose che vivevo io stesso.
Psicologicamente parlando, tutti i personaggi girano intorno a qualcosa che manca, come falene ad una lampadina, senza mai cogliere l’errore, se di errore si tratta (Mr. G. Bateson ne avrebbe parecchie da dire a riguardo) che gli impedisce di percorrere il raggio, ma solo la circonferenza di quell’elisse quotidiana.
La madre (Madeline Khan, nella sua ultima apparizione sul grande schermo) coi suoi occhi enormi e neri come quelli della mucca e dello squalo, ci prova con un costante sorriso ed una leggerezza di vivere che però eccede nell’ fuori luogo. David ha ricordi, di un’intensità abbagliante, della vita che quand’era bambino gli riempiva il cuore ed ora è tutta malinconia e accenni di depressione. Art è immobilizzato in un oblio farcito insieme da cortesia e nervosismo, insomma tutti sono persi in una schematica quotidianità che, sull’orlo di un evento che ne illuminerà l’insensatezza, li lascia rinsecchiti e privi di risorse. Robotizzati ma pur sempre sensibili ad un’inquietudine di cui non comprendono la provenienza.
Ma la cosa principale è quello stato di ipnosi che pervade il film e che allude proprio a quella questione. Sottolineato da una musichetta che da anni mi rimbalza fra i neuroni.
Bianco e Nero, ipnosi, abitudine (che genera l’esistenza per come la percepiamo), malinconia, necessità di sentimento, apatia, e poi l’immediata meraviglia di come tutto semplicemente esista.

Dentro di me Judy Berlin descrive uno di quei mondi di confine. Lo stato emotivo della pulce nell’orecchio. Il piacere di inchinarsi al cospetto del dubbio. E rimane lì perché parla un linguaggio che conosco, comportamentale e stilistico, che mi ha fornito uno specchio, un testimone, una rassicurazione e mi ha detto che, non essendo solo, inginocchiarmi di fronte al dubbio e al piacere di non sapere non è un atto di rinuncia ma un gesto di avvicinamento.

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