J’AI TUE MA MERE [SubITA] 🇨🇦

Titolo originale: J’ai tué ma mère
Titotlo internazionale: I killed my mother
Nazionalità: Canada
Anno: 2009
Genere: Biografico, Drammatico
Durata: 96 min.
Regia: Xavier Dolan

Sorprendente, geniale e a tratti disturbante, è I Killed My Mother, esordio alla regia del talentuoso e giovanissimo cineasta canadese Xavier Dolan.

Il lutto si addice a Hubert
Hubert Minel non ama affatto sua madre; anzi, travolto dalla furia adolescenziale, ne vede solamente i pullover trasandati, le decorazioni kitch, le briciole di pane sulle labbra quando mangia rumorosamente, la sua vita infelice da madre single divorziata.[sinossi]
«On aime sa mère presque sans le savoir, et on ne s’aperçoit de toute la profondeur des racines de cet amour qu’au moment de la séparation dernière» (da “Fort comme la mort”, 1889).

Non è un caso che l’incipit di dichiarazione “poetica”, e soprattutto etica, Xavier Dolan l’abbia tratto proprio da Guy de Maupassant, maestro nel tessere i suoi romanzi con tono satirico e pungente, qualità che Dolan dimostra di possedere a pieno titolo da regista e attore con I Killed My Mother. Vincitore del Prix Regards Jeune all’edizione 2009 del Festival di Cannes, l’opera prima del regista canadese è stata oculatamente programmata per la serata di chiusura del Festivl Mix alla sua 24^ edizione (22-29 giugno, Milano), e rispecchia in pieno lo spirito della rassegna: un’apertura giovane verso i giovani e l’accettazione della “differenza”, identitaria e comunitaria.

Focus in medias res su Hubert Minel (X. Dolan) in montaggio alternato tra l’ “a parte” con se stesso ed un presente irrisolto a cominciare da dove tutto ebbe ed ha inizio: il rapporto con sua madre Chantale (Anne Dorval). Segue il dettaglio da regista cinefilo insistendo con il ralenti (impossibile non pensare al maestro contemporaneo Wong Kar-wai), controlla nel ruolo di figlio il modo di masticare della madre (forse a voler richiamare come sottotesto una lettura psicanalitica di eco freudiano) ed immerge così lo spettatore nelle spine di questa relazione.

Il titolo J’ai tué ma mère (titolo internazionale I Killed My Mother ovvero Ho ucciso mia madre) potrebbe di primo impatto fuorviante; in realtà è esemplificativo e simbolico del processo di lutto interiore che Hubert sta elaborando (passa dal dichiarare alla sua insegnante che sua madre è morta chiedendole di scrivere nel compito del lavoro di sua zia, all’intitolare la dissertazione assegnatagli in collegio “Jai tué ma mère”). «Uccidersi nelle teste per poter rinascere» è solo una delle tante opzioni teorizzate da Hubert nel suo video confessionale in bianco e nero; egli problematizza l’opposto sentimento di amore-odio verso sua madre in una dinamica di attrazione e repulsione verso la stessa, conscio che nonostante tutto può essere la valvola su cui sfogarsi. Cresciuto senza la figura paterna, che fa capolino con voce autoritaria e non autorevole, egli vive giocoforza con la sua genitrice, dichiarandole apertamente ora odio ora amore («je t’aime» quando ottiene qualcosa o vuole preparare il terreno). Con leggerezza disarmante e sottile, martella con efficacia chi assiste ai loro “dialoghi”, in cui predominano le urla, il parlarsi addosso e rivangare.

Scene di ordinaria follia rese da Dolan con uno spirito ed una cura da farci digerire quella sorta di doppio di noi, ovviamente ingigantito nella finzione verosimile del cinema. Nel mito di James Dean, Hubert si ribella in pieno clichè da tappa di crescita adolescenziale, analizzando lucidamente i sintomi della vita infelice di sua madre («piantala di cantare quando sei a disagio»), ironizzando sull’arredamento e sulle abitudini kitch ed allo stesso tempo esprimendo la propria lungimiranza. Innamorato del suo compagno di scuola Antonin (François Arnaud), concepisce e affronta la differenza con intelligenza – ne rimprovera la mancanza alla madre – pur subendo le conseguenze di una società e di una forma mentis ancora troppo otturati da un moralismo borghese. Esprime se stesso, il suo mondo dirompente e diverso scrivendo, parlando al suo altro ed in particolare esercitando la tecnica del dripping (ideata da Jackson Pollock ndr), sgocciolando sul muro in uno status di libertà e amore col fidanzatino. In una partitura sapientemente equilibrata, il bianco e nero della sua confessione si alterna alle luci (rarefatte di un focolare assopito) e alle ombre in interno-esterno intervallati da flash visionari, sospesi tra il passato e ciò che desidera il suo inconscio (probabilmente solo una parte).

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Da regista nipote della Nouvelle Vague ed influenzato dal cinese Wong Kar-wai, Dolan frantuma corporalmente e mentalmente i suoi personaggi, li decentra spesso in alcune inquadrature formando dei estetici, oltre che simbolicamente speculari al loro animo. La musica sinuosa s’insinua nelle trame della storia, accompagnando il più delle volte il rallenti ed amplificando l’effetto di commedia, cifra peculiare per l’argomento trattato.

Un profeta del nostro tempo traduceva in forma di poesia questo meccanismo ancestrale: «Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. / Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore / è la mia schiavitù» (da “Supplica a mia madre” di P. P. Pasolini).

Dolan, da pittore-cineasta, segna col suo sguardo di ventunenne una storia vecchia dalla notte dei tempi, sviscerando con semplicità e personalità le dinamiche di un rapporto d’affetto profondo sin dal concepimento in cui il cielo apocalittico lascia il posto all’orizzonte.

Recensione: quinlan.it

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By Anam

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