IN FABRIC [SubITA]

Titolo originale: In Fabric
Paese di produzione: UK
Anno: 2018
Durata: 118 min.
Genere: Commedia, Horror, Esoterico, Visionario
Regia: Peter Strickland

Un’ondata di disgrazie affligge i clienti di un grande magazzino che, durante il periodo di vendite invernali, entrano in contatto con un abito maledetto. Passando da una persona all’altra, il vestito porterà con sé devastanti conseguenze…

In Fabric [id., 2018] di Peter Strickland descrive il consumismo come un punto di incontro tra naturale e soprannaturale, filtrando l’orrore e la dal desiderio di bellezza e felicità raggiungibili attraverso mezzi materiali. Eleggendo a luoghi chiave un grande magazzino e una banca, il fulcro del film – un vestito rosso con poteri apparentemente sinistri che passa di mano in mano – funziona come un’allegoria delle istituzioni capitaliste. Il film è stato presentato in anteprima mondiale nel programma Midnight Madness al Toronto International Film Festival 2018 accompagnato da un’attesa abbastanza considerevole, dato che il precedente film di Strickland, The Duke of Burgundy [id., 2014], ha offerto una chiave di lettura specifica (e certamente riduttiva) del suo cinema: ovvero che le sue opere siano pastiche, omaggi collettivi ai film di genere europei degli anni ’60 e ’70. Ma questo è vero solo superficialmente, in quanto il pastiche, per Strickland, è semplicemente un template attraverso cui mettere in immagini altri tipi di questioni.

Una cosa da tenere a mente quando si guarda un film di Strickland è che esso sposta deliberatamente l’attenzione dello spettatore sull’«artificio» del cinema […], e che i riferimenti dei suoi film al genere fantastique europeo degli anni ’70 sono più ideologici che formali. Il cinema di Strickland non tratta artisti del calibro di Jesus Franco, Jean Rollin, Walerian Borowczyk e altri come fonte di emulazione, quanto piuttosto come punto di partenza. Ha detto Strickland, nel 2014: «Molti di questi film sono decisamente poco educati [unpolished]; ciononostante, hanno sempre qualcosa di incredibilmente strano, brillante ed affascinante. Non è importante il fatto che siano film perfetti; si tratta piuttosto di trovare, in essi, determinati “momenti”. […] Nel complesso, questi film sono piuttosto irregolari; per me si tratta di vedere qualcosa di unico anche se imperfetto. Anche se uno di questi film è brutto, è sempre possibile trovare qualcosa di originale».

La narrazione di In Fabric è innanzitutto un espediente per estrapolare l’artificiosità degli spazi istituzionali, delle figure che li abitano e degli oggetti materiali che essi producono. I proprietari dei grandi magazzini Dentley & Soper (Fatma Mohamed e Richard Bremmer) accolgono i clienti con dialoghi elaborati e lunghe pause innaturali. La banchiera Sheila (Marianne Jean-Baptiste) pronuncia battute che sembrano scritte da un corporate boilerplate […]. L’acquisto di un abito rosso da parte di Sheila scatena una serie di eventi soprannaturali che lo porteranno, in seguito, nelle mani degli sposi Reg e Babs (Leo Bill e Hayley Squires), che, alla fine, incroceranno la propria strada, rispettivamente, con la banca e il grande magazzino. È nei confronti di questi spazi, in cui i beni materiali vengono acquistati o finanziati (negozi e banche), che il film fa scaturire l’orrore e la satira. Perché In Fabric non spiega mai i propri eventi soprannaturali, suggerendo che lo spettatore non deve dedurre ciò che accade sullo schermo, ma, piuttosto, fare i conti con ciò che Strickland trova di abietto e assurdo nella società.

In Fabric è diviso su due piani temporali, e il passaggio da uno all’altro avviene in modo artificioso. Il film non spiega mai quando questi salti temporali hanno luogo – sebbene il servizio di appuntamenti per posta e i telefoni fissi di Sheila suggeriscano che la prima metà di In Fabric si svolge nel passato, mentre la montatura degli occhiali di Reg e alcuni elementi del décor inducono a pensare che la seconda metà ha luogo nel “presente” –, mostrando sempre invariati il grande magazzino, la banca e il vestito. Ciò è in contrasto con la natura mutevole della moda […]. Tuttavia, mantenendo il negozio, le sue merci e la sua pubblicità sempre identici, Strickland li rende “assoluti” – una presenza senza inizio o fine, che esiste al di fuori della realtà temporale.

Il film contiene molte delle allusioni visive che lo spettatore si aspetta da un film di Strickland. In una scena in cui Mohamed esegue un ambiguo rituale con un manichino con le mestruazioni, la donna tiene una mano insanguinata sulle sue labbra. Uno spettatore amante del fantastique europeo ricorderà Franka Maï che utilizza il sangue animale come rossetto in Fascination [id., 1979] di Rollin. Due sequenze, poi, hanno come fonte di suono diegetico e non diegetico delle lavatrici: il vestito viene lavato, causando però la rottura della macchina e, nella seconda sequenza, un dissanguamento. Visivamente queste scene prendono spunto da Vortice mortale (1993) di Ruggero Deodato. Una sequenza in cui Babs descrive il sogno del parto ne ricorda una di Roger Vadim, Il sangue e la rosa [Et mourir de plaisir, 1960], uno dei primi esempi di cinema di genere europeo.

Lo spettatore noterà l’utilizzo comico del dialogo al posto di battute propriamente comiche […]. Poiché In Fabric è una produzione in gran parte inglese e il dialogo è in inglese, lo spettatore potrebbe ipotizzare che è tutto un gioco umoristico sulle traduzioni in lingua inglese del genere fantastique di metà secolo – come il doppiaggio inglese di George Hilton –, così come accadeva nelle produzioni in lingua inglese da quel tempo e luogo – come La vestale di Satana [Les Lèvres rouges, 1971] di Harry Kümel. La dizione di Mohamed in In Fabric non è diversa da quella di Delphine Seyrig ne La vestale di Satana in quanto parte dell’artificialità del suo personaggio. […]

L’artificiosità è utilizzata nel film col fine di rappresentare e deridere le strutture di potere istituzionali – che spesso si manifestano nel modo di parlare dei singoli personaggi. Strickland ha dichiarato che la serie The Office di Ricky Gervais è stata una delle fonti d’ispirazione del suo film. Strickland e Gervais sono nati e cresciuti a Reading, un centro per uffici aziendali e parchi commerciali, fra cui la sede inglese di Microsoft, ed è proprio attraverso l’utilizzo di un tipico delle human relations che Barratt e Orem funzionano come caricature della burocrazia sul posto di lavoro. Si consideri a tal proposito una sequenza in cui i due si eccitano sessualmente quando Reg descrive la riparazione di una lavatrice, che richiama la parafilia legata alle faccende domestiche di The Duke of Burgundy.

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L’artificio e l’allusione consentono all’orrore di emergere. Mentre In Fabric mette in scena gruppi isolati che eseguono bizzarri rituali, connota il più grande orrore delle istituzioni senza volto. Quando è stato intervistato a Toronto, Strickland ha ripercorso la genesi del film attraverso la sua esperienza con i grandi magazzini, descrivendoli «… come altri mondi, quasi come musei», raccontando come da bambino avesse paura dei manichini presenti in quei negozi. Si veda, ad esempio, come il film confonde le abitudini tipiche del consumatore con la sessualità – come quando, in una sequenza, Mohamed accarezza la stoffa del vestito e, alla fine, la mano di Sheila; oppure durante un flashback dell’infanzia di Reg, che si eccita sessualmente alla vista delle gambe di una negoziante. Il negozio funziona inoltre come uno spazio di confine tra naturale e soprannaturale: le pubblicità per Dentley & Soper – realizzate con la grana vintage di una telecamera della fine degli anni ’70, in cui delle ragazze invitano chi guarda ad entrare nello store – inducono l’ipnosi nei loro spettatori. La struttura di In Fabric non è dissimile da quella di un catalogo di vendita per corrispondenza, in quanto il film contiene “interruzioni di capitolo” che mostrano immagini fisse di moda e fotografie di strada. Queste sequenze suggeriscono quei processi cognitivi dei sogni che Freud descrisse in Die Traumdeutung, e che Cocteau avrebbe poi liberamente applicato a Il sangue di un poeta [Le sang d’un poète, 1932]. I banchieri e i negozianti di In Fabric incitano i personaggi a ricordare i loro sogni, facendoli spesso entrare in trance. Queste sequenze funzionano allo stesso modo della maggior parte della pubblicità, presentando l’essere consumatori come uno stato idilliaco, spesso sessualizzato.

Un cartello appeso con la scritta “The Transformation Sphere” appare più avanti nel film, identificando gli spogliatoi del negozio. Lo spogliatoio e l’atto di cambiarsi d’abito funzionano come un dispositivo che provoca eventi soprannaturali. Si potrebbe paragonare la scena in cui Sheila prova per la prima volta il vestito rosso a una sequenza del Carnival of Souls [id., 1962] di in cui Mary si toglie il vestito nero che ha appena provato. Entrambe le istanze indicano contemporaneamente una svolta narrativa per il film e l’ingresso in uno spazio nebuloso in cui emergono forze soprannaturali. Nel film di Harvey, l’immagine sfuma leggermente mentre Mary si cambia, così come nel film di Strickland l’abito stesso provoca una cicatrice sul petto di Sheila.

“The Transformation Sphere” ci parla indirettamente della relazione del corpo con l’abbigliamento, in quanto c’è qualcosa di performativo in essa. Strickland individua l’orrore nel modo in cui l’identità di ciascuno viene solitamente intrecciata con la propria auto-presentazione. L’abbigliamento funziona come un indicatore di valori – per esempio, la classe sociale – per ciascuno di noi, così come fanno i libri, i film e la musica secondo Distinction di Pierre Bourdieu e Class di Paul Fussell. […]

Non è forse una coincidenza, quindi, che a differenza delle ambientazioni esplicitamente irreali di Berberian Sound Studio e The Duke of Burgundy, In Fabric si svolga in un in gran parte operaio. […] Il fatto che il film si concentri sul contorto dei dipendenti del negozio rafforza la natura artificiale delle upper classes di In Fabric.

Nell’arco di soli sei anni, i film di Strickland sono stati analizzati perlopiù come variazioni intorno al cinema di genere degli anni ’70. Quest’accoglienza – che implica, ad esempio, fare un confronto fra il superiore di Mohamed con il personaggio di Maria in Tutti i colori del buio (1972) di Martino o di Miss Tanner in Suspiria (1977) di Argento – è tuttavia riduttiva in quanto un cineasta può usare il pastiche come semplice omaggio oppure come modello per esplorare altro. Con In Fabric, Strickland ha utilizzato il dell’horror e del cinema fantastico europeo per costruire una critica al consumismo, al capitale e al denaro, rappresentando gli esercizi di team building dei banchieri e gli spot commerciali dei clothier come se fossero rituali alchemici o di magia. In occasione della presentazione del film, il regista ha descritto In Fabric come “… un incubo sul consumismo, dove ‘consumismo’ è con la “c” minuscola, perché non siamo a una lezione universitaria.” Il film ha probabilmente più in comune con Zombi [Dawn of the Dead, 1978] di George Romero – che usa la figura degli zombi come metafora del moderno consumismo – o Fascination di Rollin – che usa il come un’allegoria delle classi sociali francesi – piuttosto che come semplice omaggio al genere giallo. Tuttavia, qualsiasi riflessione sul tema del “consumismo”, satirica o meno, è implicitamente legata ai temi del e della stratificazione sociale. Mohamed è una figura faustiana in questo senso, ovvero considerato il legame tra la di Faust e la promessa di ricchezza e felicità personali.

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