4:44 LAST DAY ON EARTH [SubITA] 🇺🇸

Titolo originale: 4:44 Last Day on Earth
Paese di produzione: USA
Anno: 2011
Durata: 100 min.
Genere: Drammatico
Regia: Abel Ferrara

 

Ed è così che il finisce

Catastrofe. Questa la rovinosa ossessione consegnata al cinema dalla falange più significativa dei film della recente kermesse veneziana. Osessione oggettivatasi visivamente in arrangiamenti multiformi e cangianti, ma immancabilmente scanditi dal tambureggiare della fine imminente, del rivolgimento irreparabile, del crollo. L’ecatombe famigliare di Killer Joe, il tracollo finanziario di Life Without Principle, la disfatta privata di Un été brûlant, il trionfo del caos di Faust, le descrizioni incubico-junghiane di A dangerous Method (per non parlare della deriva degradante di Carnage o delle aliene di L’ultimo terrestre): tutte manifestazioni di una sensibilità che nel teatro della ha allestito l’ultimo stadio di un’umanità meschina, ridicola e irrimediabilmente ottusa. Ebbene, la punta di diamante di questa legione votata alla rovina è senza dubbio 4:44 Last Day on Earth, pellicola che si apre con un annuncio piuttosto eloquente: “Mancano 14 ore e 44 minuti alla fine del mondo”. Responsabile del disastro annunciato è l’assottigliamento dello strato dell’ozono, una riduzione così consistente e irreversibile del filtro solare dell’atmosfera da determinare un’esplosione fatale per il pianeta e i suoi abitanti. Questione di schermo. O meglio di schermi: quelli che popolano l’appartamento di Cisco (Willem Dafoe) e Skye (Shanyn Leigh), che invadono chiassosamente il loro spazio (i televisori perennemente accesi) e che costituiscono il loro autentico legame affettivo col esterno (il monitor del Mac col quale i due comunicano con amici e parenti). Non è affatto fortuito che la fine del mondo coincida esattamente e ineluttabilmente con la fine delle immagini: pronunciate le parole “Passeremo a un’altra sfera”, lo schermo cinematografico si fa interamente bianco. Un accecamento della visione spettacolare che riecheggia gli incandescenti Hurlements en faveur de Sade di debordiana memoria. Termine estremo di un percorso iconoclasta perseguito con terribile, olimpica serenità: “Siamo già angeli” recita l’ultima battuta del film, epitaffio a un tempo risibile e insopportabile nel suo sottrarsi all’oggettività della rappresentazione cinematografica. Ancora un Blackout, o meglio un whiteout/without al termine della notte.

Con la medesima serafica attitudine che pervadeva Go Go Tales, la ronde finale e rassegnata dedicata al suo essere nella società dello spettacolo, Abel Ferrara si approccia in 4:44 Last Day on Earth all’Apocalisse, improvvisando pacato in un poema visivo a versi liberi ma stipati nel sentire borghese formato loft artistoide, nei residui di un kammerspiel ovattato nella banalità di una di privilegiati, pettine a cui vengono indiscriminatamente tutti i nodi, amoralmente, luogo dove non esiste positivo né negativo. Come in Go Go Tales, e qui ancora più paradossalmente, la tragedia è soppressa: perché ammorbidita nella sua ineluttabilità, nel suo essere comunque inesorabile. Ma, soprattutto, è un’assenza che si fa placidamente satirica nel dimostrare l’effetto Placebo, l’alienazione che fino all’ultimo induce il sistema capitalista (tutti lavorano, sino all’ultimo), nuovamente il teatrino della società dello spettacolo (tutto è trasmesso, ogni cosa è mediata, sino all’ultimo), la mediocrità pirandelliana dei sentimenti (tutta la verità emotiva è ambigua, gli affetti si indossano e non si provano, sino all’ultimo). La Fine non cambia l’umanità, 4:44 Last day on the earth è (come in parte Melancholia di Lars Von Trier) un film sulla dipendenza, sull’addiction verso schemi e rituali che colmano l’uomo, lo accecano di credenze, dissidi patetici, necessità posticce, poesia povera. La sostanza umana, oggi, per Ferrara, è un dato, all’indagine sul furore dell’anima si è sostituito un percorso antropologico stilizzato, immersivo e a grado zero, commutato in un vortice sincretico sfliacciatissimo, grottesco e risibile come i dialoghi automatici della vita, autistico nel suo mappare sempre gli stessi luoghi di una poetica (consapevole dei propri limiti), eppure percorso da uno sguardo che trasuda umanesimo resistente nell’accarezzare quei corpi ottusi, con la camera digitale Red che danza con eleganza sopraffina sulle ceneri del low budget, sulle superfici prive di profondità a cui sono ridotti gli individui.

Guarda anche  V.I.P. [SubITA]

Recensione: spietati.it

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By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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