UN LAC [SubITA]

Titolo originale: Un Lac
Nazionalità: Francia
Anno: 2008
Genere: Drammatico
Durata: 90 min.
Regia: Philippe Grandrieux

A conti fatti, accade ben poco nel terzo lungometraggio di finzione di Philippe Grandrieux, Un lac [id., 2008]. Ma è proprio su questi resti di una storia (d’amore?) che il cineasta francese ha l’occasione per approfondire ulteriormente la propria idea di cinema sensoriale1. Quello che compie, qui come altrove, è infatti un processo di vertiginosa saturazione filmica, in contrasto con i buchi e i vuoti di una narrazione fatta letteralmente a brandelli. A subire questo processo intensivo, essenzialmente verticale (e dunque contrapposto all’orizzontalità della narrazione), sono i singoli elementi che costituiscono il film: i corpi, gli oggetti, gli ambienti. E, ovviamente, l’inquadratura, che li “contiene”. Perché – ed è bene ribadirlo fin da subito – il cinema di Grandrieux non interpone, o perlomeno cerca di annullare, quella distanza che intercorre tra il quadro e ciò che esso riprende. Tutto, piuttosto, entra in relazione: il fuori col dentro, l’interno con l’esterno. Una fenomenologia della sensazione che procede – com’è noto per chi conosce il suo cinema – per choc, visivi e uditivi. Grandrieux con Un lac esalta questi elementi concentrandosi, in particolare, sulla natura pre-discorsiva del suo cinema. Un processo che, come avremo modo di vedere, mette in atto una sorta di “liberazione” dei singoli elementi: il particolare avrà la meglio sul generale, il determinato sul totale.
Concettualmente sospeso fra un esistenzialismo di tipo fenomenologico (forse, più nell’accezione indagata da Merleau-Ponty che da Jean-Paul Sartre) e un processo di liberazione di corpi, di segni e di sensi tipicamente post-strutturalista (Pierre Klossowski, Gilles Deleuze, senza dimenticare il contributo fondamentale e pionieristico di Antonin Artaud), Un lac diventa dunque un film-chiave per cercar di indagare una delle poetiche peculiari del nuovo millennio cinematografico, quella di Philippe Grandrieux.

L’inquadratura liberata.
Com’è noto, il padre della fenomenologia Edmund Husserl aveva auspicato un ritorno «alle cose stesse» in campo filosofico. Specifica Maurice Merleau-Ponty: «ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla coscienza […] e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume.»2 Se applicassimo, ovviamente contestualizzandole, tali considerazioni al cinema di Grandrieux, e in questo caso a Un lac, potremmo notare come siano in qualche modo illuminanti. È infatti, questa, un’opera “di ritorno”, pre-intellettuale e pre-discorsiva, dai caratteri primordiali. Primordiale e selvaggio, d’altronde, è in primis il luogo in cui il film è ambientato (girato in Svizzera, interpretato da attori russi e parlato in francese, come fa giustamente notare Aaron Cutler3). Un ambiente naturale – un lago, un bosco, le montagne, ripresi da Grandrieux in chiave romanticista e decadente4 – che assume un ruolo fondamentale all’interno di questa storia di amori e gelosie, tutte consumate all’interno del nucleo familiare – nucleo presto sconvolto, come in Teorema [Pier Paolo Pasolini, 1968], dall’arrivo inaspettato di un “elemento” esterno, il giovane Jurgen.

Un lac è un film in cui si parla poco, come nel cinema “contemplativo” di Sharunas Bartas, quasi che le parole – ovvero l’atto principale di significazione – siano ormai superflue. Un lac è, piuttosto, un ritorno al potere dell’inquadratura; al primo piano, al dettaglio. Inquadratura che fatica quasi a contenere ciò che riprende: sempre pronta, piuttosto, a vibrare.

Scrive il filosofo Jacques Derrida a proposito delle teorizzazioni sul teatro di Antonin Artaud, «Liberata dal testo e dal dio-autore, la messa in scena verrebbe dunque restituita alla sua libertà creatrice e instauratrice, […] sarà rappresentazione originaria, se rappresentazione significa anche dispiegamento di un volume, di un ambiente a più dimensioni, esperienza produttrice del suo spazio. Spaziatura, cioè produzione di uno spazio che nessuna parola sarebbe in grado di riassumere o comprendere […].»5
E ancora:
«Come funzioneranno allora la parola e la scrittura? Ridiventando gesti: sarà ridotta o subordinata l’intenzione logica e discorsiva che fa assumere alla parola la sua trasparenza razionale e dissolve il suo corpo in direzione del senso, lascia che stranamente si sovrapponga ad esso il suo stesso costituirsi come qualcosa di diafano: decostituendo questo diafano, si mette a nudo la carne della parola, la sua sonorità, la sua intonazione, la sua intensità, il grido [corsivo del redattore] che l’articolazione della lingua e della logica non è ancora arrivata a raggelare del tutto […].»6
Seppur applicato alla teoria del teatro della crudeltà di Artaud, le parole di Derrida si applicano bene anche al contesto che ci interessa. La natura verticale del cinema di Grandrieux di cui si parlava più sopra consiste, infatti, proprio in un atto di liberazione che fa letteralmente «gridare» l’inquadratura. E quante immagini, nel film di Grandrieux, letteralmente gridano? Corpi, ambienti: non c’è distinzione, tutto è liberato. Memore della lezione della pittura di Francis Bacon7, il “tremito” esistenzialista ed espressionista del cinema grandrieuxiano raggiunge, in Un lac, una forma definitiva. L’urlo baconiano è il vero protagonista.

Nel film, il giovane protagonista Alexi soffre di epilessia. Ecco allora che, genialmente, Grandrieux collega questo disturbo neurologico, questa reazione fisica di incontrollabile alla propria poetica: filmico e profilmico si compenetrano indissolubilmente

L’ scaturita a fatica può essere contenuta, deve trovare un modo per consumarsi. L’incipit diventa dunque paradigmatico, e chiarisce perfettamente questo aspetto del film. La prima immagine è indistinta – è il primo dei vari casi di out of focus presenti in Un lac. Ma ecco che un movimento permette allo spettatore di intuire che ciò che sta vedendo è il corpo di un uomo. Qualcuno, infatti, sta tagliando un albero con un’accetta. Noi ne vediamo essenzialmente il gesto (per riprendere ancora la terminologia derridiana), il movimento. Grandrieux lo inquadra a mezzo busto: dell’attore ne vediamo solo le mani che impugnano l’ascia (Robert Bresson?) e una parte del tronco. Solo successivamente vedremo finalmente il volto di Alexi. Il primo piano, ovvero quell’elemento filmico che permette l’identificazione da parte dello spettatore nei confronti del personaggio, viene posticipato.

Come scrive giustamente Sarinah Masukor nella sua analisi dedicata proprio all’incipit di Un lac «Watching this sequence, I am struck by the force with which the camera and sound evoke the sensation of being in the human body.»8 È, come già anticipato, un cinema di sensazioni, quello di Philippe Grandrieux: «[it] makes visual the energy of the body, and the sensation of being […]».9 Ecco allora che la chiave esistenziale inizia ad assumere una precisa collocazione. Quelli di Grandrieux sono esseri gettati nel mondo, “carne in potenza” come li avrebbe definiti Francis Bacon.
C’è però un altro aspetto fondamentale che bisogna considerare. Come nota Rodney Ramdas «these first moments swing us back and forth between two extremes: total mobilisation, and equally, total immobilisation […]».10 A questi momenti ipercinetici, infatti, Grandrieux contrappone momenti statici, ripresi alla stregua di tableau vivant (pensiamo allo sguardo assorto di Alexi rivolto all’albero che sta per cadere nella sequenza appena citata). Si tratta sovente di campi lunghi di paesaggi, che la mise en scène di Grandrieux trasfigura formalmente in luoghi astratti, proiezioni esteriori dell’interiorità dei personaggi. Tutto infatti, in Un lac, è luogo mentale – così come lo era nel cinema di Andrej Tarkovskij e com’è, in tempi più recenti, in quello di Lars von Trier. La natura selvaggia diviene dunque il campo privilegiato di questa speculazione esistenziale.

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Un lac è forse il lungometraggio in cui Grandrieux ha avuto maggiore controllo. A differenza del lavori precedenti, infatti, il regista francese ha curato in prima persona anche la fotografia. Con la camera a mano egli sta addosso ai personaggi, li tallona, stringendo spesso sui loro volti. «Grandrieux shot the film himself, picking up a handycam and moving it so close to his main characters that the world becomes almost completely eclipsed by them.»11 Questa tendenza a stare addosso ai personaggi, ad insolarli – in particolare, Alexi – si risolve in una frammentazione che non investe unicamente gli spazi (non abbiamo quasi mai un totale che ci illustri una scena nel suo complesso), ma anche i corpi. In particolare sono gli interni, spesso avvolti nell’oscurità, ad essere il luogo privilegiato da Grandrieux per approfondire il lavoro sul découpage spaesante già avviato con La Vie nouvelle [id., 2002] e che troverà nel successivo White Epilepsy [id., 2012] la sua maggiore teorizzazione12. Costituiti dunque unicamente da primi piani e dettagli (principalmente di mani), i corpi escono e rientrano nell’oscurità, mentre il sonoro assume un ruolo spaziale. Sono i rumori, infatti, le vere “pareti” di queste stanze senza perimetro. Basti pensare alla sequenza della cena in famiglia, dopo il ritorno del padre, in cui il rumore del cibo masticato diviene assordante. I volti, nell’oscurità, si limitano a contemplarsi l’un l’altro.

Nello stesso modo è ripresa la scena del coito tra Hege e Jurgen. Qui Grandrieux, riprendendo le “sensualità” filmiche dei precedenti Sombre [id., 1998] e soprattutto La Vie nouvelle, mette in pratica un découpage sperimentale dai tratti impressionistici (come non pensare a Jean Epstein) in cui il “tutto” non ci viene mai restituito. Un movimento di “parti”, piuttosto, che si rifà anche al cinema di corpi di Claire Denis.

Il corpo liberato.
Un lac non segna unicamente un ritorno al primato dell’inquadratura pura, dello spazio, dei dettagli, del primo piano. Il film di Grandrieux mette in pratica un complesso lavoro di sintesi tra corpo, sonoro e ambiente. Come abbiamo visto, non è solo l’aspetto visivo a ricoprire un ruolo centrale nella poetica del regista di Sombre. Pari importanza assume la banda sonora, composta nei suoi film quasi esclusivamente da respiri, affanni, sussurri e urla. Essa rappresenta, forse con ancor maggior forza rispetto al visivo, la forza primordiale, vibrante, dell’invisibile. Si prenda in considerazione uno dei pochi dialoghi di pregnanza del film, pronunciato da Alexi.

Come la morte dell’uomo,
così la morte dell’animale.
L’anima, una sola.
Nessun uomo può fermare il vento.

Scrive giustamente Jose-Luis Moctezuma in proposito: «In one of the film’s few dialogic moments, Alexi recites a few words that postulate a philosophy for the way of life depicted in the film […] the human sensorium, like the animal sensorium, is one equally vulnerable to obliteration, to extinction at the sight of that which is pre-language and post-body.»13 Un “dopo-corpo”, quello riscontrato da Moctezuma, che mette in evidenza lo stretto rapporto che intercorre tra il film di Grandrieux e l’opera di Pierre Klossowski. Scrive Gilles Deleuze a proposito dello scrittore francese: «Tutta l’opera di Klossowski tende verso un unico scopo: assicurare la perdita dell’identità personale: dissolvere l’io, è lo splendido trofeo che i personaggi di Klossowski riportano dal viaggio fatto al bordo della follia. […] E l’io è “dissoluto” soltanto in quanto, in primo luogo, è dissolto: non soltanto l’io che è guardato, che perde la sua identità sotto lo sguardo, ma quello che guarda e che si mette anche fuori di sé che si moltiplica nel suo sguardo.»14 È ovvio che il filosofo francese si sta riferendo ad un’opera specifica, Il bafometto. Ma il romanzo ha più di un punto in comune con il film di Philippe Grandrieux. Scrive ancora Deleuze: «[…] i corpi perdono la loro unità e l’io la propria identità, il linguaggio perde la sua funzione di designazione (il suo modo proprio d’integrità) per scoprire un valore puramente espressivo o, come dice Klossowski, “emozionale”: non rispetto a qualcuno che si esprime e che sia commosso, bensì rispetto a un puro espresso, pura mozione o puro “spirito” […]».15
Alcune sequenze di Un lac traducono filmicamente questo abbandono della singolarità del corpo in spirito, suono e ambiente – come d’altronde già accadeva nella celebre sequenza della camera termica de La Vie nouvelle. Pensiamo a quell’esempio di décadrage in cui la macchina da presa, dal volto di Hege, si sposta poco alla volta per andar ad inquadrare l’ambiente.

Ma, su tutte, c’è forse una sequenza, isolata dal resto del film, che traduce in maniera emblematica questo mutare dei corpi nel vento, nei rumori e nei suoni. È quella del canto intonato da Hege. Il brano è tratto dall’Opera n° 39 di Robert Schumann16 intitolata Mondnach. Scrive sempre Moctezuma: «In contrast to his previous two films’ jarring, stop-and-start, heavily edited soundtracks, here Grandrieux scoops out the score. Un Lac‘s lone instance of music is a song that Hege bursts into, with an off-screen Schumann piece accompanying. I’m not sure what the song is doing in the movie (nor did Grandrieux, when asked about it), but it does seem to point to a life outside the film, much as the lake points to a life outside the woods.»17 Un momento “fuori” dal film. Ecco allora che questa sequenza, così isolata dal resto del corpo del film, diviene davvero significativa. Se il corpo, klossowskianamente trasceso, reso spirito o soffio, è liberato, forse in questo breve momento il film stesso si libera definitivamente da se stesso. Un campo, un contro-campo, un ambiente. Tutto si racchiude qui, in un momento eterno.

Era, come se il cielo avesse baciato la terra,
silenziosamente,
ed essa,
nello splendore dei fiori,
dovesse sognare soltanto di lui.
L’aria spirava per i campi,
le spighe ondeggiavano lievi.
I boschi stormivano sommessi,
la notte era tanto stellata.
E la mia anima dispiegò
le sue ampie ali,
volò per le contrade silenziose,
come se volasse verso casa.

NOTE
1. Cfr. con il saggio Philippe Grandrieux, o del terrorismo sensoriale presente sul sito.
2. M. Merleau-Ponty, Fenomenlogia della percezione, Milano, Bompiani, 2005, p. 17.
3. A. Cutler, Film Comment Selects 2010: Philippe Grandrieux Films, http://www.slantmagazine.com/house/article/film-comment-selects-2010-philippe-grandrieux-films .
4. Un connubio di elementi, scrutati attraveso una prospettiva tanto filosofica quanto pittorica. «The ideas of Nietzsche and Heidegger as to the imagery of Caspar David Friedrich and Gerhard Richter.» scrive infatti, giustamente Chris Chang. [C. Chang, Hot Property: Un lac, http://www.filmcomment.com/article/hot-property-un-lac ].
5. J. Derrida, Prefazione, in A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1994, p. XV.
6. Idem, p. XVIII.
7. Fondamentale per una lettura dell’opera grandrieuxiana è il testo di Gilles Deleuze Logica della sensazione. Cfr., ad esempio, con le analisi di Lorenzo Baldassari dedicate a White Epilepsy e La Vie nouvelle.
8. S. Masukor, Sublime Materiality: Un lac , http://www.screeningthepast.com/2013/09/sublime-materiality-un-lac/
9. Idem.
10. R. Ramdas, The Acinema of Philippe Grandriex, http://lumenjournal.org/issues/issue-i/ramdas
11. N. Matthijs, Un lac, http://twitchfilm.com/2011/01/un-lac-review-philippe-grandrieux.html#ixzz3bMjolOw1
12. White Epilepsy riprenderà letteralmente un’inquadratura da Un lac, e la svilupperà temporalmente per quasi l’intera durata.
13. J.-L. Moctezuma, Sensorial Cinema: Grandrieux’s Un lac,http://www.hydramag.com/2013/06/23/sensorial-cinema-grandrieuxs-un-lac/
14. G. Deleuze, Fantasma e letteratura moderna, in Senso e non senso, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 249-250.
15. Idem., p. 262.
16. La scelta di un autore come Robert Schumann appare tutt’altro che casuale se si considera che egli è uno degli esponenti di punta della corrente romanticista in musica. Il romanticismo, dunque, ritorna non soltanto visivamente per le influenze pittoriche già citate (David Friedrich,Gerhard Richter) ma anche attraverso questa precisa scelta musicale.
17. J.-L. Moctezuma, op. cit.

Recensione: specchioscuro.it

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