THROW AWAY YOUR BOOKS, RALLY IN THE STREETS [SubITA]

Titolo originale: Sho o Suteyo Machi e Deyō
Nazionalità: Giappone
Anno: 1971
Genere: Drammatico, Musicale, Visionario
Durata: 137 min.
Regia: Shūji Terayama

Throw Away Your Books, Rally in the Streets è il capolavoro visionario di Shūji Terayama, regista, poeta, saggista, drammaturgo e boxeur che ha impresso un marchio indelebile sull’avanguardia giapponese.

Un mondo che scompare

Il protagonista, un adolescente che figura anche come io narrante dell’intera vicenda, racconta il proprio percorso di crescita umana, ostacolato dalla giapponese e da una famiglia composta da una nonna anziana, una sorella che ama a tal punto il suo coniglietto da esserne sessualmente ossessionata, e un padre che per “renderlo uomo” lo lascia tra le braccia di una prostituta. Ma il vero fulcro della storia è il confuso e ambiguo Giappone di inizio anni Settanta, diviso tra rigurgiti reazionari e sogni di liberazione culturale. [sinossi]

“Throw Away Your Books, Rally in the Streets!”. Sì, gettate via i libri, radunatevi nelle strade. Occupatele quelle strade, giovani del Giappone confuso che ha visto la contestazione portare a galla i detriti di un mondo solo in superficie pacificato, ma in realtà ribollente, vomitante sentimenti di rivolta, di non accettazione dell’esistente. Ha pochi mesi di vita nelle sale legate all’Art Theatre Guild (la gilda/circuito creata da Terayama per portare sul suolo nipponico i film più ostici e ostili al mainstream) il sulfureo Emperor Tomato Ketchup, crudele viaggio metaforico in un Giappone “infantile”, quando irrompe sugli schermi, bombardandoli, Throw Away Your Books, Rally in the Streets, che era già pièce teatrale sempre nelle mani di Shūji Terayama. Il pubblico occidentale, anche quello meno chiuso sul proprio ombelico, ha con difficoltà dimestichezza con l’underground nipponico, che pure rappresentò un momento chiave nello sviluppo culturale del Ventesimo Secolo, non solo a Tokyo e dintorni: già maneggiare l’intera filmografia di Nagisa Ōshima, senza dubbio il nome più celebre e celebrato, risulta tutt’altro che agevole, figuriamoci andare a stanare nomi come quelli di Susumu Hani (The Inferno of First Love, 1968), Masahiro Shinoda (Fiore secco, 1964, Doppio Suicidio ad Amijima, 1969), Toshio Matsumoto (Funeral Parade of Roses, 1969), Kōji Wakamatsu (Su su per la seconda volta vergine, 1969, Estasi degli angeli, 1972) o il suo sodale Masao Adachi (Aborto procurato, 1966, La guerriglia delle studentesse, 1969) con il quale diresse nel 1971 il fondamentale Red Army/PFLP: Declaration of World War, vera e propria dichiarazione di appartenenza ai gruppi rivoluzionari internazionali.
All’interno di questo microcosmo a se stante Shūji Terayama occupa un ruolo allo stesso tempo di primo piano e laterale: regista, sceneggiatore (anche per Shinoda), saggista, teorico, drammaturgo, scrittore, presentatore televisivo, perfino boxer, Terayama rappresenta un unicum non solo all’interno della produzione giapponese, tra le più aperte a dirazzare dalla prassi e concedere spazio a bizzarrie di vario tipo, ma anche nel panorama cinematografico mondiale. Uomo rinascimentale, in grado di coniugare la figura dell’intellettuale nipponico a quella occidentale, Terayama firma una filmografia che sembra quasi cercare – e trovare – il punto di incontro all’apparenza impossibile tra le istanze poetiche di Pier Paolo Pasolini, Carmelo Bene e Jean Genet, anche per la capacità di scavare un solco profondo all’interno della cultura del proprio paese. Per quanto nessuno si affatichi a studiarlo in maniera approfondita, esiste un’era pre e post Terayama, sul finire della sua breve carriera al lavoro anche in Europa, nel film collettivo Collections privées e ne Les Fruits de la passion, per conto di quell’Anatole Dauman che aveva già portato alla fama mondiale Nagisa Ōshima con Ecco l’impero dei sensi.

Prima ancora di essere il capolavoro visionario che qualsiasi amante della Settima Arte dovrebbe sentirsi obbligato a recuperare, Throw Away Your Books, Rally in the Streets è una dichiarazione d’intenti in piena regola. I dubbiosi potranno affidarsi anche solo all’incipit, che viene di seguito riportato quasi per intero.
Schermo nero sul quale irrompono rumori, voci appena percettibili, fruscii. Ecco finalmente, dopo oltre un minuto, apparire l’immagine in bianco e nero del protagonista, che fissa il pubblico e afferma: “Cosa fai qui? Anche se te ne vai in giro non succederà niente. Lo schermo è bianco. Qui sono tutti stanchi come te di starsene con le mani in mano. Chissà se qualcuno conosce qualche barzelletta…”. Il ragazzo si accende una sigaretta, prima di proseguire: “Sai qual è la differenza tra me e te? Tu non puoi fumare ma io, io sono libero. Non dovresti arrabbiarti così. Prova a distrarti un attimo. Posa la mano sulla ragazza a fianco a te. Avanti, stringi il suo ginocchio. Se non funziona non ti arrabbiare. Nessuno sa chi sei. Nessuno sa chi sono io; il mio nome non è mai finito sui giornali. Non ho un nome, sono senza soldi e sono sporco. […] Dopo quel film, quello con Ken Takakura che lotta come un demonio, sei uscito muovendo le spalle come se fossi tu a uccidere due o tre persone. Sì, tu! Che ti prende? Io non dimentico. Piangevo da solo nell’oscurità del cinema.” Il monologo prosegue ancora, nel ricordo di un giovane coreano morto dopo essersi schiantato al suolo su un aliante improvvisato che aveva costruito nel sogno di tornare nella sua patria, e finisce sul grido ripetuto “Il mio nome è…”.
Questi cinque minuti, in cui la macchina da presa non si muove mai, rimanendo incollata all’attore che sta recitando il monologo, rappresentano in qualche modo la chiave di volta per penetrare la corteccia di Throw Away Your Books, Rally in the Streets: un afflato umanista raggelato ma non per questo meno sincero o efficace, accompagnato per mano da una tensione politica che si manifesta sia attraverso una messa in scena anarchica e dominata dal senso dell’ellisse, sia attraverso una policromia fotografica spiazzante, tra riprese fuxia e verdastre, casti e rigorosi bianchi e neri, e chiazze in odor di acido.

Guarda anche  PASTORAL: TO DIE IN THE COUNTRY [SubITA]

Raggiunto il punto di ebollizione (il film arriva come coda di un decennio di proteste e rivendicazioni politiche e poetiche, tra la negazione dell’accordo/capestro tra USA e Giappone, la nascita dell’Armata Rossa Giapponese, il dirottamento del Boeing 727 per far rotta verso la Corea del Nord e gli scioperi a oltranza di operai e studenti) Throw Away Your Books, Rally in the Streets è l’arma definitiva, l’ordigno fine di mondo che esploderà contro la prassi borghese riducendola in brandelli. Il monologo iniziale non solo attraversa lo schermo per rivolgersi direttamente al pubblico in sala, ma pone una questione fondamentale: lo spettatore e il protagonista sono uguali, entrambi non sono nessuno. Per questo non si può scandire il nome proprio, perché esso appartiene a tutti gli spettatori, di qualunque sesso e di qualunque età. È il Giappone a doversi risvegliare, perché “qui sono tutti stanchi di starsene con le mani in mano”. Il cinema non è azione, è parodia dell’azione. Sublima il senso di eroismo dello spettatore senza che questa debba sporcarsi le mani. Ma ora è proprio il momento, invece, di sporcarsele quelle mani.
Throw Away Your Books, Rally in the Streets è dunque un punto di non ritorno definitivo per il cinema di Terayama (e, per estensione, per l’intera produzione nipponica), momento d’incontro irripetibile nel quale l’avanguardia visiva e contenutistica deflagra completamente, sia per il differente impegno narrativo – il film si dipana fino a superare le due ore di durata – sia per una maturità poetica che a distanza di quarantacinque continua a soprendere e a sbalordire.
I già citati giochi cromatici, le angolature sghembe e del tutto sregolate della macchina da presa, il montaggio anti-narrativo e schizoide, la tenace letterarietà di molti dialoghi, non sono per Terayama elementi da utilizzare in quanto figli di un colto ma in fin dei conti sterile approccio ludico alla materia. Non si tratta di un ribellismo d’accatto teso comunque a una quadratura produttiva del cerchio né, in un’ultima analisi, è giusto parlare della volontà, da parte del regista, di épater le bourgeois. Terayama non cerca mai lo scandalo fine a se stesso: Throw Away Your Books, Rally in the Streets, è, al contrario, una messa in scena impietosa (e perfino profetica) della decadenza della giapponese a ridosso del 1968.

Il mondo che descrive Terayama (prima nel libro e nella pièce omonime, quindi nel film), abitato da dropout e figure ai margini della società, vive in uno confusionale apparentemente impossibilitato a una soluzione, nel quale perfino la ribellione – atto solitario, e per questo destinato all’inevitabile fallimento – assume i connotati di una mancata liberazione. L’unico modo che abbia il cinema di muoversi in controtendenza rispetto a questo panorama è quello di ridicolizzare perfino se stesso: Terayama applica dunque alla pellicola una rigorosa, per quanto colorata e avanguardista, smitizzazione dell’immaginario cinematografico. Ne viene fuori un’opera inclassificabile, concettualmente libera, in grado di accogliere al suo interno le più stimolanti novità della cultura dell’epoca. In questo senso acquista un valore particolare l’eccellente colonna sonora firmata dal collettivo dei Tokyo Kid Brothers (già Kiddo Kyodai Shokai), capitanato da Yutaka Higashi e al quale dà una mano anche il genio pazzoide di J.A. Caesar, abituale frequentatore del cinema di Terayama e autore di alcune gemme impazzite di quegli anni floridi anche sotto il profilo musicale – da citare almeno lo splendido Kokkyou Junreika, dato alle stampe nel 1973. Anche quello messo insieme dal regista è un collettivo a tutti gli effetti, un mondo a parte in cui ogni membro della troupe si presta per qualsiasi lavoro. Ma per riuscire a partecipare fino in fondo dell’assoluta unicità dell’opera di Terayama bisogna forse trovarsi di fronte alla conclusione di questo strano, straordinario film, quando di nuovo il protagonista, impegnato in un altro monologo, spiega le “regole del gioco” per poi affermare: “Polanski, Ōshima Nagisa, Antonioni, è tutto un mondo che scompare quando si accendono le luci”. Non sempre, per fortuna.

ps. Alcuni passaggi di questa recensione sono rielaborazioni di quanto già pubblicato nel volume Nihon Eiga. Storia del cinema giapponese dal 1970 al 2010, a cura di Enrico Azzano, Raffaele Meale e Riccardo Rosati.

Recensione: quinlan.it

Come è il film ?
+1
0
+1
0
+1
0
+1
0
+1
0
+1
0
+1
0
By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

Related Posts

AGRAfilm è ONLINE AGRAfilm è OFFLINE