
Titolo originale: Vaxdockan
Paese di produzione: Svezia
Anno: 1962
Durata: 88 minuti
Genere: Thriller, Horror
Regia: Arne Mattsson
Sinossi:
Un guardiano notturno solitario lavora in un grande magazzino e trascorre le sue notti circondato da manichini e vetrine silenziose. Col tempo sviluppa un’ossessione per uno dei manichini femminili esposti nel negozio. Incapace di separarsene, lo ruba e lo porta a casa, iniziando una convivenza segreta in cui proietta desideri, affetto e bisogno di compagnia. La linea tra immaginazione e realtà si fa sempre più sottile, fino a quando il manichino sembra prendere vita, trasformando l’ossessione in qualcosa di imprevedibile e inquietante.
Recensione:
The Doll è uno di quei film che sembrano tranquilli solo perché parlano a bassa voce. Arne Mattsson costruisce un thriller gelido, controllato, in cui l’orrore non esplode mai davvero, ma si insinua come una corrente sotterranea che attraversa tutto. È un cinema che lavora sul disagio, sulla fissazione, sull’idea che dietro la superficie levigata della modernità si nasconda qualcosa di profondamente marcio.
La bambola di cera è il cuore simbolico del film. Non è solo un oggetto macabro, ma una dichiarazione di poetica: il corpo femminile ridotto a simulacro, a immagine congelata, a cosa da osservare e possedere. La cera è materia ambigua, viva e morta allo stesso tempo, e Mattsson la usa come metafora di una società che desidera immobilizzare ciò che la turba. Le vittime non vengono solo uccise, vengono trasformate in icone mute, private di movimento e di voce.
Il film respira una paranoia sottile, quasi da laboratorio psicoanalitico. Tutti i personaggi sembrano portare addosso una maschera, e nessuno appare completamente innocente. L’indagine non è tanto un percorso verso la verità, quanto una discesa in un universo di pulsioni deviate, gelosie, frustrazioni sessuali e doppi fondi identitari. La violenza non è mai spettacolare, ma proprio per questo risulta più disturbante: è chirurgica, rituale, inevitabile.
Visivamente, Vaxdockan è essenziale e spietato. Mattsson utilizza luci fredde, interni geometrici, spazi urbani che sembrano progettati per annullare l’individuo. La città diventa un meccanismo, una macchina che osserva e registra, mentre gli esseri umani si muovono al suo interno come manichini. Non c’è calore, non c’è rifugio, solo superfici lisce che riflettono ossessioni.
C’è una dimensione profondamente disturbante nel rapporto tra sguardo e potere che il film mette in scena. Chi guarda chi? Chi possiede l’immagine dell’altro? The Doll sembra anticipare una riflessione inquietante sul controllo, sull’oggettificazione e sul desiderio di fermare il tempo. Le bambole non invecchiano, non cambiano, non resistono. Sono la versione ideale di un corpo che non può più ribellarsi.
Sotto la struttura da thriller investigativo, il film nasconde una vena quasi esoterica, come se ogni omicidio fosse parte di un rituale di fissazione, un tentativo disperato di bloccare il flusso della vita. La cera diventa una sostanza alchemica rovesciata: invece di trasformare, congela. Invece di elevare, imprigiona. È una magia nera domestica, borghese, che non ha bisogno di simboli arcani per funzionare.
Il ritmo è misurato, a tratti glaciale, ma coerente con l’universo che Mattsson costruisce. Non c’è urgenza, c’è ossessione. Non c’è suspense urlata, ma un senso costante di inevitabilità. Quando la verità emerge, non porta sollievo, ma un’ulteriore sensazione di vuoto. Come se capire fosse solo un altro modo per constatare quanto tutto fosse già compromesso.
The Doll è un film che inquieta proprio perché non cerca di farlo apertamente. Un thriller che guarda l’horror negli occhi senza mai nominarlo davvero. Un’opera che riflette sul desiderio di controllo, sull’angoscia del cambiamento e sulla violenza silenziosa nascosta dietro la normalità. Cinema freddo, lucido, disturbante, che lascia addosso la sensazione di essere stati osservati a lungo da qualcosa che non aveva bisogno di muoversi.
