TEN YEARS THAILAND [SubITA]

Titolo originale: Ten Years Thailand
Paese di produzione: Tailandia
Anno: 2018
Durata: 95 min.
Genere: Drammatico, Fantascienza, Visionario
Regia: Aditya Assarat, Wisit Sasanatieng, Chulayarnnon Siriphol, Apichatpong Weerasethakul

Tra le Séances spéciales di Cannes c’è stato spazio anche per questo lavoro collettivo sul futuro ipotetico – e in alcuni casi tristemente credibile – della Thailandia. A dirigere i quattro episodi Aditya Assarat, Apichatpong Weerasethakul, e Wisit Sasanatieng. Un’operazione intelligente e ricca di spunti politici e cinematografici.

Il passato è il futuro?
Ten Years Thailand è un film collettivo che invita quattro registi thailandesi a immaginare il loro paese da qui a dieci anni. I quattro sono Aditya Assarat, Apichatpong Weerasethakul, Chulayarnnon Siriphol e Wisit Sasanatieng. Ognuno ha contribuito con un episodio che, nel complesso, suona come un avvertimento sulla situazione politica odierna in Thailandia. Dal 2014 il paese è governato da una dittatura militare che ha messo un freno alla dissidenza, all’espressione pubblica, alla di pensiero. Un nuovo nazionalismo è promosso attraverso regole che veicolano quello che viene considerato come “pensiero corretto”. Se questo stato delle cose continuerà, a cosa rassomiglierà il paese nel prossimo decennio? [sinossi]

Parte dalla più classica citazione Ten Years Thailand, presentato come proiezione speciale fuori concorso al Festival di Cannes, vale a dire George Orwell e il suo celeberrimo “Who controls the past controls the future: who controls the present controls the past”, slogan di partito in 1984. Parte da Orwell per una lunga serie di motivi: perché tutti gli episodi di cui si compone il film si muovono in un futuro distopico, dieci anni a partire da oggi; perché si ipotizza l’inasprimento della già presente dittatura militare; perché il bispensiero, il modo perfetto per non trovarsi mai al di fuori dell’ortodossia dichiarando tutto e il contrario di tutto, è alla base di più di un segmento. C’è Orwell, in Ten Years Thailand, perché il sistema in cui nasce produttivamente questo film è iniquo, una dittatura militare considerata leggera e pertanto accettata senza particolari problemi dall’Occidente. Una dittatura militare che non è la prima e non sarà l’ultima per la Thailandia, e non è la prima e non sarà l’ultima nel panorama geopolitico in cui si trova l’ex reame del Siam. Non è un caso che il progetto nasca per volontà di 10 Years Studio Limited, la società di produzione creata da Andrew Choi e Ng Ka Leung che già aveva dato alla luce nel 2015 Ten Years, quattro episodi ambientati nel futuro prossimo di Hong Kong e diretti da Kwok Zune, Wong Fei-pang, Jevons Au e Chow Kwun-wai. Un film censuratissimo in Cina ma che vinse a dispetto di tutto vinse in quell’anno come miglior film all’Hong Kong Film Awards. Il concetto da cui sono partiti Choi e Ng evidenzia già con una certa chiarezza la volontà politica e per nulla provocatoria che animava il progetto: una prospettiva panasiatica, che si interroghi sulle supposte “libertà” delle varie democrazie dell’area geografica, da Taiwan al Giappone, per poi allargarsi a macchia d’olio. Solo in un panorama complessivo le singole distopie possono arrivare a comporre fino in fondo una verità acclarata e incontrovertibile. Una verità che parla del soffocamento continuo e progressivo di ogni voce di dissenso.

Sotto questo punto di vista è apparso probabilmente naturale partire con un secondo capitolo in Thailandia, paese che sta vivendo una dittatura militare dal 2014 e che nel corso della propria storia ha visto in più occasioni i vertici dell’esercito gestire la cosa pubblica, con tutto quel che ne consegue. Un paese addormentato, come ha più volte raccontato Apichatpong Weerasethakul, che torna a ribadire il concetto anche nel suo segmento intitolato Song of the City e posto in chiusura di questo quartetto d’archi volutamente dissonante.
I quattro registi scelti per lavorare sul futuro leggendo il presente e ricordando il passato – il gerundio può essere invertito senza che il risultato cambi – sono significativi per chi ha un minimo di conoscenza della scena cinematografica di Bangkok e dintorni (scena che ha rappresentato una delle più grandi e piacevoli rivoluzioni d’immaginario a cavallo del Ventunesimo Secolo). Aditya Assarat ha vinto premi in mezzo mondo sia con Wonderful Town che con Hi-So, fondando nel 2006 la casa di produzione indipendente Pop Pictures (che co-produce anche Ten Years Thailand) insieme a Soros Sukhum e Jetnipith Teerakulchanyut; Wisit Sasanatieng è uno dei numi tutelari della new wave thai, sia come sceneggiatore – il fondativo Dang Bireley’s and Young Gangsters e l’horror-mélo Nang Nak, entrambi per la regia di Nonzee Nimibutr – che come regista, come testimoniano i folli pastiche ultrapop Le lacrime della tigre nera, Citizen Dog e gli horror The Unseeable e Senior; Chulayarnnon Siriphol è un prolifico videoartista, a sua volta apprezzato a livello mondiale, che si diletta anche con una costruzione visiva più strettamente cinematografica, come dimostrano tra gli altri Vanishing Horizon of the Sea e Hua-Lam-Pong; Apichatpong Weerasethakul, infine, è semplicemente il più importante regista della storia thailandese, e uno dei più grandi e incontestabili maestri della contemporaneità.

Quattro autori, quattro biografie differenti (ed età, si va dai cinquantacinque anni di Sasanatieng ai trentadue di Siriphol), quattro diversi approcci alla materia visiva, per un unico scopo: raccontare le distonie del futuro basandosi sulle ristrettezze di pensiero e di libertà d’azione dell’oggi. Raccontare un paese che potrebbe essere ma è che già immerso nella follia, e nel quale la popolazione ha già accettato di fatto le privazioni messe in atto senza ribellarsi in forma collettiva. Ognuno dei registi affronta il proprio paese inseguendo l’immaginario che gli è più consono. Così Assarat compone un delicato e sublime rom-com in bianco e nero, mettendo in scena l’arte rimossa e considerata scandalosa – perché i militari non possono piangere e non si può ridere con il Wat Pho, lo splendido tempio con il Buddha disteso, sullo sfondo –, e Sasanatieng si lancia in un’allegoria in cui gli umani sono prede di uomini e donne gatto; Siriphol compone un’elegia stralunata e iper-colorata che ridicolizza perfino la figura della reggente, in abiti militari e intenta a somministrare l’oppio televisivo al popolo, dominato anche da un monaco cibernetico in una paranoia cyberpunk che rimanda anche a Shinya Tsukamoto, ma soprattutto ai neon ospedalieri di Cemetery of Splendour di Apichatpong Weerasethakul. E proprio Weerasethakul mette la parola fine facendo muovere in un parco in riallestimento – tutto va rifatto nella ‘nuova’ Thailandia che di nuovo ha ben poco, in una riflessione quasi gattoleopardesca – un venditore di d’ossigenazione per dormire meglio. Per dormire. Per dimenticare l’esistente pulendosi i polmoni ma tornando poi durante il giorno a respirare la solita mefitica aria. L’aria di un paese che si sta perdendo, una nazione meravigliosa per natura e tradizione – non a caso il giovane militare nel segmento di Assarat non ha rimpianti nell’essere spedito a Chiang Mai, nel profondo nord – che non è più in grado di risvegliarsi dal torpore. Forse potrebbe ancora, ma tra dieci anni il coma sarà irreversibile.

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In un film a episodi è impossibile non incorrere nel classico saliscendi emotivo e d’impatto scenico, e si potrebbe anche stilare una lista di “migliori” e “peggiori”. Sarebbe però un esercizio logico, e non empatico. Con Ten Years in Thailand il cinema thailandese, grazie anche alle coproduzioni internazionali con Hong Kong e Giappone, rialza la testa, torna a dire la sua, a raccontare l’esistente, il presente di una quotidianità su cui con troppa facilità si sorvola preferendo far finta di nulla. Con Ten Years in Thailand lo spettatore occidentale, sempre che abbia in sorte di imbattervisi, potrà (ri)conoscere autori che stanno segnando questi anni con uno stile unico, personale e di difficile imitazione. Da qui si può ripartire, perché lo spazio vuoto che separa una fotografia dall’altra può essere riempito dall’umano, dalla sua volontà di confrontarsi con l’altro, e di cercare di comprenderlo. Si riparte dalla dialettica, di spazi e di tempi e di pensieri. L’unica àncora di salvezza.

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