Titolo originale: Rupture
Nazionalità: USA
Anno: 2016
Genere: Fantascienza, Horror, Thriller
Durata: 102 min.
Regia: Steven Shainberg
Renee Morgan, una madre single che vive con il dodicenne figlio Evan in una tranquilla casa di periferia, ha il terrore dei ragni. Madre e figlio ignorano però di essere costantemente osservati fino al giorno in cui Renee viene rapita da un gruppo di sconosciuti. 24 ore dopo, in un anonimo laboratorio, Renee si ritrova legata e interrogata sulla sua storia medica e sulla sua aracnofobia. Ben presto, i sequestratori le spiegano che la sua anomalia genetica potrebbe portare a far fuoriuscire la sua vera natura aliena.
Noomi Rapace precipita in un coloratissimo caleidoscopio di incubi all’interno di Rupture, un paranoia-movie che ha una certa fragranza di cose note per noi del bis italiano (Il nido del ragno di Gianfranco Giagni, tanto per essere chiari), anche se, in effetti, la storia è inedita. Madre separata che vive con il figlio adolescente, Renee viene sequestrata da un gruppo di individui che non sembrano affatto possedere i crismi della malvagità. Sappiamo che, chiunque siano, la spiavano con telecamere nascoste in casa e che le hanno piazzato uno strano aggeggio su una ruota della macchina. Poi, al momento opportuno, mentre la donna sta guidando sola nella campagna, le fanno esplodere lo pneumatico e, fingendo di volerla aiutare, la bloccano, le fasciano la faccia con del nastro isolante nero o qualcosa del genere, l’ammanettano e la caricano a bordo di un furgone, portandola a centinaia di chilometri di distanza. Dentro un posto tutto rosso come l’inferno, dove altri rapiti vengono sottoposti ad assai poco piacevoli test, basati sulle idiosincrasie e sulle fobie di ciascuno. Renee, aracnofobica a dei livelli patologici, se la deve vedere con dei ragni fatti zampettare sulle sue braccia, in un primo momento, e poi, nella scena clou, su tutta la faccia, grazie a un terribile ordigno trasparente.
Quale sia lo scopo di tutto questo, è ignoto. E impenetrabili i personaggi che conducono siffatte sperimentazioni, indossando degli strani occhiali telescopici e manifestando una particolare sensibilità per la pelle delle vittime e per i segnali in codice che essa trasmette loro. Rupture – il significato del cui titolo è sub iudice: dovrebbe alludere alla rottura della continuità della nostra vita abituale, a un salto che si verifica nel momento in cui qualcosa dentro di noi viene attivato e si sveglia. Ma di più non voglio dire perché è un attimo scivolare nello spoiler – è diretto dallo stesso regista, Steven Shainberg, che qualche anno fa – anzi parecchi anni fa (2002) – si era imposto all’attenzione con Secretary, apologo sull’amore sadomaso con protagonisti Maggie Gyllenhaal e James Spader, che nascondeva in realtà una ricerca sulla vera natura degli individui, sulla possibilità che la potenzialità dell’essere si compia e diventi atto. Lo stesso non è difficile intravedere sotto la superficie fantastica e allucinata di Rupture, dove Noomi Rapace va man mano scoprendo, intrappolata nei budelli del carcere color del sangue, il mistero che è racchiuso dentro di lei e più precisamente in un suo gene, che la accomuna a poche altre creature di questa Terra. E non solo di questa Terra.
Pars destruens, cioè cosa non funziona. Debole e inverosimile è la sezione centrale della faccenda in cui la pugnace Renee riesce ad evadere con inverosimile nonchalance dal lettino di contenzione della sua cella e si mette a vagare, tramite un condotto dell’aria, per i vari compartimenti del luogo che la imprigiona, senza che nessuno si accorga di lei. Lì, la sceneggiatura forza troppo facilmente la mano e incrina il portato paranoico di ciò che viene prima (che è ottimo) e di quello che succederà dopo (che è ancora meglio), quando la Rapace sarà messa di fronte, dopo l’ordalia con i ragni sul viso, al perché del Grande Intrigo. Comunque, Rupture è nel segno positivo e corrobora l’idea che Shainberg ci sappia fare, che non sia soltanto un buon mestierante ma abbia idee e gusto. Noomi Rapace aiuta moltissimo il film, è inutile negarlo, tripartendo la sua interpretazione tra la Renee dell’inizio in chiave di madre single, quella del mezzo come eroina combattente e la metamorfosi/non metamorfosi del finale – molto bello, a nostro avviso – che lascia la porta aperta a un possibile seguito. Chiamare in causa il torture-porn come ha fatto qualcuno è folle. Ma ancora più folle scomodare Refn per l’uso del colore.
Recensione: nocturno.it