
Titolo originale: Loop
Paese di produzione: Brasile
Anno: 2020
Durata: 98 min
Genere: Fantascienza, Drammatico
Regia: Bruno Bini
Sinossi:
Daniel, un fisico brillante ma devastato dal dolore, perde la sua amata Maria Luiza in un tragico attacco. Determinato a recuperare ciò che ha perso, Daniel spalanca la porta della fisica quantistica e del viaggio nel tempo nella speranza di tornare indietro, riscrivere la storia e salvare il futuro. Ma mentre si immerge in loop temporali sempre più tortuosi, scopre che alterare il passato significa sconvolgere l’identità, l’amore e la colpa. Ogni salto indietro è una ferita nel presente che credeva di aver lasciato alle spalle.
Recensione:
Loop non è soltanto un film sulla fisica del tempo o sul rimpianto: è un viaggio di metamorfosi interiore travestito da thriller fantascientifico. Bruno Bini, regista brasiliano di rara ambizione, costruisce una narrazione che sembra semplice — un uomo che torna indietro per salvare la donna che ama — e la trasforma in un viaggio dentro il caos dell’anima, nella dimensione in cui il desiderio non può essere contato, misurato o corretto.
Daniel è l’archetipo dell’essere umano moderno che crede di poter dominare il tempo, ma scopre che il tempo lo domina. La sua ossessione è allo stesso tempo tecnologica e spirituale: cerca la formula, l’equazione, il portale, ma trova il vuoto. Quando tutto attorno a lui sembra possibile, è se stesso che perde. E la fisica, che avrebbe dovuto essere la sua salvezza, diventa specchio del nulla che ha dentro.
La regia di Bini non si nasconde dietro effetti spettacolari. Il suo sci-fi è essenziale, austero, quasi povero — e proprio in questa economia visiva trova forza. Le inquadrature sono segnate dal verde opaco dei laboratori, dal giallo stinto dei corridoi, da un tempo che sembra rallentare ma non si ferma mai. Il montaggio gioca con la ripetizione, con la memoria che si smarrisce, con l’errore che non può essere cancellato. È come se ogni taglio fosse una ferita che non si rimargina.
Il film è, in fondo, una riflessione amara sul nostro desiderio di controllo: nel XXI secolo l’uomo non cerca più solo potere sulla natura, ma potere sul tempo, sul destino, perfino sull’amore. Ma Loop ci mostra quanto sia fragile quell’illusione. Maria Luiza non è solo vittima, è simbolo di tutto ciò che nell’amore non si può forzare: la presenza, la vita, il fluire. E Daniel cerca di recuperare, cerca ciò che non è più suo — e forse non lo è mai stato.
C’è un elemento quasi esoterico nell’ossessione di Daniel: la scienza che diventa rito, l’equazione che diventa preghiera, il salto nel passato che diventa una discesa nella solitudine. Il regista lo sottolinea attraverso simboli ricorrenti: lo specchio dell’acqua che riflette ciò che non ritorna, l’orologio che supera il minuto ma non la colpa, la stanza bianca che sembra asettica ma tratta sangue memoria e dolore.
Il successo di Loop nei festival internazionali — da Fantasporto al Manchester Film Festival — non è un caso. Il film ha vinto premi per montaggio, per attrice (Branca Messina), per il film del festival stesso. Eppure, non si adagia su questi riconoscimenti: rimane un’opera inquieta, capace di turbare più con quello che non dice che con quello che mostra.
Dal punto di vista tematico, Loop dialoga con grandi film sul tempo e il trauma: The Butterfly Effect, Predestination, Deja Vu. Ma ciò che lo distingue è che non promette riscatto, non concede speranza facile. Al contrario: l’inganno del “secondo giro” si rivela peggiore del primo. Ogni loop è un passo verso uno specchio che non ha più riflesso.
C’è anche un aspetto politico, nascosto sotto la meccanica del viaggio temporale: il film brasiliano riflette la precarietà del presente latino-americano, la perdita di certe radici, l’ansia di recuperare un futuro che sembra sempre scivolare via. Daniel non corre solo contro il tempo: corre contro la storia che ha ignorato, contro la memoria che ha tradito.
E ancora: la solitudine. Il tempo non è solo dimensione, è prigione. Daniel si isola, si allontana, diventa scienziato del silenzio. Le sue scoperte diventano ermetiche, le sue speranze astratte. In questo senso, Loop è anche un film sull’isolamento del genio — e sull’egoismo amoroso che pensa di salvare l’altro, quando in realtà cerca la propria salvezza.
La colonna sonora minimale accompagna gli stacchi temporali come respiri trattenuti. Non ci sono scoppi di azione, non ci sono esplosioni cinematografiche: c’è lo scorrere del tempo che torna su se stesso, l’eco di un urlo che non si ode e l’ombra di un addio che non smette di cercare risposta.
Il finale del film non è catartico: non trovi il “come” ma solo il “perché”. Quando Daniel ritorna — o almeno tenta di farlo — la domanda non è “ha funzionato?” ma “ha senso?”. E lo spettatore, che pensava di assistere a un film sul cambiamento, si ritrova a contemplare ciò che non può essere cambiato: l’amore perduto, il tempo consumato, l’uomo che ha scelto di fare il salto e ha perso se stesso.
Loop è dunque un rituale del rimpianto, una meditazione sul tempo che non concede seconde occasioni, una lama affilata che recide ogni promessa di redenzione. Se sei disposto a perderti in un film che non conforta, ma scuote — allora questo è uno dei presenti più sinceri del cinema recente.
