LIBERA ME

Titolo originale: Libera me
Paese di produzione: Francia
Anno: 1993
Durata: 75 min.
Genere: Drammatico, Sperimentale
Regia: Alain Cavalier

In un distopico, una giunta militare ha preso il controllo sulla popolazione, che deve completamente assoggettarsi nei comportamenti ai dettami del regime, pena la morte. Due fratelli, sono parte di un’organizzazione segreta che si oppone alla dittatura. Uno dei due però viene ucciso e la sua morte verrà vendicata. Ma la repressione che ne seguirà sarà terribile.

Libera me che Alain Cavalier realizzò nel 1993, è un’opera sperimentale di forte carica drammatica, un film davvero terribile nella sua asciuttezza (Fabio Ferzetti) costruito col sangue, i nervi, le ossa e la carne dei personaggi che lo animano che ha il coraggio di rinunciare completamente alla parola per affidarsi esclusivamente alla potenza delle immagini, una scelta stilistica efficace e insolita che sembra voler portare  alle estreme conseguenze la lezione bressoniana che il regista dimostra di aver ben assimilato.

Immagini per altro assolutamente significative, davvero di straordinario impatto, di quelle che non si dimenticano tanto facilmente, capaci di esercitare sullo spettatore una fascinazione quasi ipnotica (forse quella più memorabile  e scioccante di tutto il percorso narrativo di questo singolare oratorio sulla resistenza, come lo ha definito a suo tempo Aldo Tassone, è la sequenza in cui ci viene mostrato un prigioniero reduce dalle esecrabili torture che sono state esercitate sul suo corpo che non ha nemmeno la forza necessaria per impugnare il cucchiaio e cercare così  di rifocillarsi un poco con la sporca brodaglia della sua ciotola, che viene aiutato da un altro compagno di sventura ugualmente martoriato, a sua volta riverso sul pavimento della cella che li ospita, che  con analoghe immani difficoltà  riesce a raggiungerlo e ad “accoglierlo” accanto a se per imboccarlo pazientemente con infinito, compassionevole amore: un passaggio essenziale e sublime che – cito ancora Tassone – è davvero una Pietà moderna degna di Dreyer).

Il suo dunque, al pari  di quello del grande Bresson (Un condannato a morte è fuggito e  Pickpocktet in particolare),  è un cinema fatto di sguardi,  semplici gesti e piccoli dettagli su cui soffermarsi e meditare (un microscopico messaggio vergato sulla cartina di una sigaretta, le strisce di un fazzoletto nascoste in un libro che serviranno poi a fasciare i polsi tumefatti di un partigiano rimasto appeso per ore al muro con le manette,  un cutter  che fa “sparire” un nome su un documento di per cambiarne la destinazione, delle bombe a mano nascoste dentro un comodino, un esercito di sospettati allineati che attende pazientemente i controlli della polizia),  particolari che attraversano lentamente la scena o si fissano immobili (come gli angoli alzati delle braccia che fanno pensare alle maglie di una gigantesca rete metallica comunicando un fortissimo senso di oppressione), da “assaporare” lentamente per farli lievitare nella memoria fino a coglierne appieno il valore, riconoscerne il senso ed apprezzare tutte le dolorose pulsioni che li determinano, che si infiammano e prendono forma nel tempo amplificandosi a dismisura, dopo essersi radicati nella profondità delle nostre coscienze non per quello che sono, ma per ciò che intendono rappresentare.  Perché qui i bisogni elementari come i sentimenti, la fame, la paura, la sofferenza, la violenza fisica subita, o la prevaricazione, non sono mai ostentati, ma sempre e solo suggeriti in maniera allusiva (una minuscola patata bianca spezzata in due su un piatto bianco che si contrappone alla preparazione di prelibati arrosti destinati ai potenti; una fiamma ossidrica accesa in primo piano; un pennello che traccia un numero su delle bare; una mazza che manda in frantumi le maniglie di una birreria; il getto d’acqua di una doccia sopra il capo di un imbavagliato che subisce la tortura, e così via, il tutto inquadrato spesso da una cinepresa immobile, che ha la capacità di sottrarre all’ovvietà del contesto abituale, ogni oggetto e situazione che ci mostra,  per isolarli, “immortalandoli” così nella loro cruda e astratta fisicità).

Un cinema semplice e tutt’altro che cerebralmente elaborato, nonostante i temi esposti e le  coinvolgenti implicazioni messe in campo, potremmo definirlo, ma di una tale complessità organizzativa  anche formale, che difficilmente può essere assimilato in toto al primo frettoloso contatto: necessita infatti a mio avviso di meditate riflessioni,  e soprattutto – perché no? – persino di “revisioni” anche  visive per riuscire a distillare completamente tutta la densa materia trattata e farla diventare “personale bagaglio di conoscenza”.

Davvero poco frequentato (e ancor meno conosciuto) qui in Italia, non fu “adeguatamente” compreso nemmeno in Francia alla sua uscita, suscitando forti perplessità proprio per la radicalizzazione delle scelte compiute che passano principalmente – come già detto – dalla totale eliminazione dei dialoghi (e anche l’accoglienza al festival di Cannes al quale fu invitato a partecipare, per altro con la discutibilissima decisione che lo danneggiò gravemente di optare su una sala più piccola per la sua proiezione a causa della di esasperato ermetismo che già si era guadagnato ancor prima di essere visto, non fu delle migliori):  “Perché ostinarsi a suonare su una corda sola?” fu obiettato maliziosamente al regista da un solerte quanto miope giornalista proprio all’indomani della presentazione a Cannes. “Mica mi ci sono impiccato a quella corda! – rispose contrariato e un pò piccoso Cavalier – se  in questo film ho scelto di fare a meno di alcune cose a cominciare dalla parola, se ho chiuso delle porte per giocare sulle ellissi, non è stato certamente per una sterile scommessa intellettualistica o per fare della provocazione: Libera me non ha volutamente la struttura romanzesca a cui ci ha abituati il cinema tradizionale, con un inizio, uno svolgimento drammatico, e una conclusione; è un film “nero” – ma non del tutto disperato, però – che pone delle domande precise su certe zone oscure della vita, quindi anche sulla narrazione, sulla suspence; se la vita umana è ambigua e oscura, perché avrei dovuto fare un film che non lo è, un film di quelli da amare a prima vista? La forma si sceglie in base a ciò che si intende rappresentare e non può essere messa in discussione per partito preso. Domandiamoci allora semplicemente se funziona ed è efficace” e qui devo dire… che funziona ed avvince, a conferma dell’idiozia retorica di una domanda inutile posta da un giornalista incompetente e un po’  fazioso.

Avrei immaginato, al di là delle riserve iniziali, una successiva migliore fortuna  per questa insolita operazione anticommerciale, ma di potente impatto emozionale. Purtroppo invece a quanto mi risulta, nemmeno il tempo è poi riuscito a rendere pienamente giustizia all’intransigente lavoro del regista, tanto che adesso possiamo ben definire il film un “invisibile” cronicizzato soprattutto  per il nostro improvvido mercato, e questo in tutte le sue forme ed espressioni (compreso l’home video).

Occorrerà forse allora proprio per tale ragione spendere qualche parola in più su ciò che viene  messo in scena dalle ellissi del racconto, anche se non sarà purtroppo sufficiente a tratteggiarne compiutamente il senso perché alla fine poi non è tanto la rappresentazione lineare dei fatti ad essere importante, ma ciò che di questi viene enucleato e mostrato. Proviamo allora a sintetizzare per sommi capi la traccia degli avvenimenti che ha inteso narrare il regista: in un clima da guerra civile di un’epoca e un luogo imprecisati, un pugno di resistenti (una vera e propria “armata delle ombre” che ha il suo quartier generale fra un bistrot  e uno studio fotografico clandestino) si impegna alacremente per opporsi alla prevaricazioni della dittatura rispondendo colpo su colpo alle brutali rappresaglie del gruppo che detiene il potere. Non ci sono però connotazioni “storicizzate” né riconoscibili segni identificativi che consentano possibili “parallelismi” (anche le divise indossate dai poliziotti sono di un indecifrabile, misteriosissimo blu scuro che le rende “astrattamente indefinite”), e questo contribuisce ad universalizzare fortemente l’allegoria della rappresentazione ponendola al di fuori e al di sopra di ogni “specifica realtà”.

I proprietari del bistrot hanno due figli, uno dei quali lavora in una macelleria, mentre l’altro, più politicamente impegnato, svolge la sua attività in uno studio fotografico specializzato nella preparazione di documenti falsi. Quando il fratello “macellaio” viene arrestato e ucciso per un’inezia (ha osato contestare il comportamento sprezzante di un funzionario di venuto a scegliere la carne  per i suoi superiori) il fratello fotografo e i suoi amici, decideranno di vendicarlo passando dalle parole ai fatti. Seguirà ovviamente un calvario infinito di rappresaglie da parte della polizia, arresti, infiltrazioni, torture, delazioni estorte, che scateneranno altri attentati e una lotta sempre più serrata dei partigiani che si oppongono alle forze dell’ordine.

Una vicenda vecchia come il mondo, raccontata infinite volte, ha dichiarato in più di un’occasione Cavalier. Ma per evitare i luoghi comuni ed essenzializzare i concetti (il film è racchiuso in soli 75’) il regista è stato veramente “drastico”, e insieme ai dialoghi, alle parole,  ha eliminato anche il campo da tutto ciò che poteva essere eluso o che comunque per lui era superfluo: i preamboli, l’ambientazione naturalistica, l’evoluzione psicologica dei personaggi, la tensione drammatica della storia (partigiani e polizia, per esempio, si affrontano in spazi assolutamente astratti e non decifrabili, circoscritti da fondali neutri come in Thérèse, ma resi “speciali” da una illuminazione essenziale che accentua i contrasti e  conferisce  una straordinaria drammaticità all’insieme che, come nei quadri di Caravaggio, proviene quasi sempre da una sola sorgente, e di ogni azione viene evocata la fase preparatoria, la scelta delle armi, i particolari secondari come un messaggio nascosto con cura dentro le pieghe di un abito, magari la sua conclusione, ma non c’è un vero e proprio intrigo perchè persino lo svolgimento “centrale”, quello più significativo e importante, viene sottratto alla visione e affidato esclusivamente  all’immaginazione dello spettatore).

Guarda anche  KID [SubITA]

Cavalier arriva così a raggiungere la totale essenzialità con uno sguardo (quello della macchina da presa) che  si denuda di ogni orpello, per concentrarsi esclusivamente sugli oggetti concreti della realtà e soprattutto sui volti (gli sguardi, i gesti) degli uomini (impersonati da non professionisti per ottenere così una maggiore aderenza anche fisica). E la mancanza totale della voce umana, delle “possibili” didascalie esplicative che a volte sono chiamate a sostituirla, oltre che della musica (ma non dei suoni di sottofondo), crea un “distorcimento” sensoriale che all’inizio può sconcertare un poco, ma una volta superata l’iniziale meraviglia, il disorientamento si rivela invece una risorsa che avvince, a conferma che la soluzione adottata è certamente un po’ provocatoria, ma affascinante e sopratutto stimolante con il suo vasto campionario di dettagli portati in primo piano, di sguardi, di gesti isolati dal convenzionale contesto di una messa in scena pedissequa e restituiti alla loro nuda e spesso crudele essenza, che si imprimono sibillinamente nella memoria dello spettatore: da questo film – è ancora Tassone (che nel 1993 fece di quest’opera l’evento centrale  di France cinema, la rassegna annuale dedicata al cinema francese che si teneva ogni anno a Firenze) a parlare – così ricco di utensili da taglio (coltelli, baionette, cutter) si esce con l’impressione che una lama di rasoio abbia raschiato dal nostro occhio interiore le cateratte della convenzione, restituendoci una vista nuova.

Possiamo allora considerare questo Libera me l’opera più stimolante e coraggiosa di tutto il percorso artistico del regista,  che si definisce, proprio per la sua struttura articolata in brevi quadri staccati, come una specie di Via crucis della Resistenza tutt’altro che sacrilega.

Figurativamente, oltre che dalla impostazione caravaggesca dell’illuminazione, il regista  sembra  invece trovare ispirazione per  la sua  inesauribile messe di immagini memorabili e inquietanti che ci scarica addosso, nelle suggestioni  di certi cicli pittorici di Goya (I disastri della guerra in particolare).

Allora anche se a Cannes non divenne quel caso cinematografico che si meritava di essere e non raccolse medaglie (se si eccettua il premio della giuria ecumenica), se suscitò più perplessità che entusiasmi, se non è riuscito nemmeno ad avere  tardivi ed unanimi riconoscimenti dalle platee degli “illuminati” circuiti internazionali, se si continua ancora oggi ad ignorarlo, Libera me può considerarsi  a quasi quattro lustri dalla sua realizzazione, uno dei film più originali della storia del cinema, e quello con il quale Cavalier riprende,  rendendoli perfettamente “compiuti” nella loro realizzazione anche tecnica, quei genialoidi procedimenti ellittici che aveva già sperimentato embrionalmente in un precedente e analogamente “misconosciuto” cortometraggio girato nel 1979  (Ce répondeur ne prend pas de messages).

Libera me, inquietante saggio sull’orrore della repressione, sui disastri delle guerre civili e sulla difesa della dignità umana, è comunque a suo modo anche un singolare ritorno (tutt’altro che citazionista o celebrativo) al cinema muto, che (ed è ancora a Tassone che rubo la parola) restituisce al nostro sguardo la sua purezza originale liberandoci dalla convenzione dei dialoghi e delle musiche imperversanti, stimolando la nostra immaginazione. “Straordinario, vero?” osserva l’ex diva del muto Norma Desmond dopo aver visionato nella sua villa dei vecchi film: “eppure in quelle pellicole non c’erano dialoghi, bastavano i volti e gli sguardi ad esprimere tutto…” Ecco: questa riflessione della protagonista di “Sunset Boulevard” sembra scritta apposta , o meglio ancora,  calza a pennello per un film come “Libera me” e non credo allora a questo punto che ci sa bisogno di ulteriori parole per evidenziarne la grandezza, oltre a quelle che seguono (dello stesso Alain Cavalier riprese da un’intervista di Aldo Tassone) che sono a mio avviso importanti per contestualizzare il suo lavoro di appassionata ridefinizione anche stilistica del cinema, messo a punto proprio con Libera me:

“In questo film vedrete un fazzoletto da donna annodato al polso di un uomo, una testa di maiale ben rasata, degli adolescenti che, nella lotta contro l’oppressione, hanno più inventiva degli adulti… Ma non udrete nessun dialogo. Le parole non preparano, non accompagnano, non commentano l’azione. Non si tratta di un film muto però: sono stati semplicemente scelti per lo spettacolo cinematografico quei momenti della vita in cui non si parla. Lo spettatore vi troverà forse una maggiore libertà d’interpretazione e, speriamo un piacere particolare. (…) Il film non finisce sulla morte, perché il “secondo figlio” torna simbolicamente in vita (la ragazza che lo ama gli apre simbolicamente gli occhi passando sulle palpebre un dito umettato di saliva, come fece  Cristo con Lazzaro). Cosa voglio dire con questo? Semplicemente che anche se si uccidono le persone fisicamente, non si può distruggere la razza umana; chi resiste è più forte della morte. D’ora in poi gli oppositori risponderanno alla violenza con l’ironia: versare sul capo e il corpo delle bottigliette di mercuriocromo (che lascia delle tracce per varie ore) è un modo per marcare simbolicamente qualcuno senza ucciderlo. Durante il Sessantotto certi operai in rivolta l’avevano fatto con i loro patrons. Questo senso di surrogata è sottolineato anche dal suono di un sonaglio da bambini che si sente sotto i titoli di coda. (…) In questa storia ho scaricato in qualche modo un’angoscia che mi portavo dietro da tempo. Sapevo che rischiavo grosso e che mi stavo giocando tutto. Ma ho deciso di osare, e ne è venuto fuori un film ancora più sconvolgente di quanto pensassi. “Dérangeant”, ma non disperato.  (…) Normalmente lo spettatore moderno è abituato a “recuperare” l’emozione non solo dalle immagini ma anche da quella che chiamerei “la sessualità della parola” che ho volutamente eliminato questa volta per non disperdere troppo la sua attenzione. (…) Lo spettatore troverà così in questo “silenzio” uno stimolo alla sua immaginazione e una più grande libertà  di “interpretazione”. C’è una sorta di “forza elettrica” che deve suggerire le relazioni fra i personaggi. Se ci sono dei momenti non del tutto chiari (l’identificazione della prima vittima che scatena la catastrofe, il fotografo che sotto la fa il nome di un altro partigiano) non è grave: la vita è piena di zone d’ombra, di ambiguità, di porte chiuse. “Libera me” non è né “La patetica” di Tchaikovsij né “La Traviata”, con un’ouverture, tre tempi o cinque atti ben delineati e una conclusione; ho scelto questa forma ellittica intenzionalmente: il film pone – mi sembra – degli interrogativi sull’oscurità della vita ma anche sulla narrazione cinematografica. Certo il film pone dei problemi agli spettatori: per la prima volta non si sentono più all’interno di un sistema riconoscibile. Mi sono spinto  senza volerlo troppo oltre nell’ellitticità? Era un rischio che dovevo correre. (…) Il fatto che il film non abbia avuto a Cannes nessun premio non mi ha per nulla sorpreso. Per non urtare il produttore, in attesa del verdetto mi ero fermato sulla costa, a Marsiglia, abbastanza lontano dalla Croisette, con il biglietto per Parigi in tasca, quindi pienamente consapevole di come potevano andare le cose. L’idea di organizzare la prima per la stampa non nella sala grande ma in una sala piccola era stata suggerita da una preoccupazione rivelatasi infondata e controproducente: ci sembrava che fosse un film troppo dolorosamente intimo che era meglio consumarei in piccole comitive… ma si è rivelato un pericoloso boomerang.  Non mi pento invece di aver evitato rigorosamente ogni forma di battage pubblicitario, a parte la consueta conferenza stampa per i giornalisti. Il film era appena terminato, ero letteralmente svuotato, senza parole. Avrei dovuto probabilmente preparare meglio il terreno fornendo ai critici e al pubblico un adeguato “mode d’emploi” ma era proprio necessario che  accadesse? Certi film guadagnano ad essere rivisti. Credo che “Libera me” sia uno di questi: chi ha fatto l’esperienza mi ha detto che la seconda volta si chiarisce e si riscalda. Dovrei semmai offrire allora agli spettatori in sala la possibilità di rivedere due volte il film pagando un solo biglietto, sarebbe una buona forma di pubblicità! Chissà, scegliendo bene le sale, anche un film sibillino come questo potrebbe davvero finire per incontrare il suo pubblico. (…) Molti mi hanno detto che “Thérèse era un film più “caldo”. Può darsi. Ma è più facile emozionarsi per un film che ha per protagonista un individuo o una coppi e più difficoltoso arrivare invece a provare la stessa emozione per un “gruppo” di persone. In “Thérèse”, poi, la vicenda in fondo era nota, mentre  qui è tutta da inventare. Personalmente trovo comunque molto emozionanti certi volti anonimi di “Libera me”, quello dell “secondo figlio” ad esempio, e quello della ragazza dai capelli rossi che diventa sua compagna di lotta e di vita… “Libera me” non è un film per nulla semplice e ne sono consapevole. In paragone, “Thérèse” era un’operetta, come mi ripete spesso l’attaché de presse scherzando. Gli spettatori lo capiscono in maniera diversa secondo i paesi d’origine (l’ho presentato tra l’altro in Scozia, Canada e altrove), secondo la generazione a cui appartengono (chi ha fatto la guerra capisce meglio certe allusioni), secondo l’esperienza che ognuno ha della sofferenza, della privazione della libertà e delle tragedie della vita. Io non pretendo che il pubblico capisca tutti i dettagli; io stesso non sapevo esattamente quello che stavo facendo quando lo realizzavo, me ne accorgo ora da certe reazioni della gente; a poco a poco il film fa la sua strada nella mente di ciascuno e anche nella mia. “Questo film è come l’inglese”, mi diceva una spettatrice scozzese “tutti nel mondo masticano un po’ di inglese di base, ma ognuno l’interpreta poi e lo completa a modo suo”. Mi sembra una buona descrizione del film. Se certi dettagli sfuggono non è un problema, l’importante è che si afferri la sostanza, l’insieme. D’altra parte se ho fatto un film sull’aspirazione alla libertà contro tutte le costrizioni (insorgendo al tempo stesso contro la sofferenza e contro un certo tipo di cinema preconfezionato e precotto) non posso mica lamentarmi se qualche spettatore sceglie liberamente di abbandonare la sala; devo lasciarlo libero di reagire come vuole! E’ un suo pieno diritto.

Guarda anche  GREATLAND [SubENG]

filmtv.it

Come è stato il film ?
+1
0
+1
0
+1
0
+1
0
+1
0
+1
0
+1
0
By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

0 Comment

No Comment.

Related Posts

AGRAfilm è ONLINE AGRAfilm è OFFLINE