
Titolo originale: I.K.U.
Titolo internazionale: I Robosex
Nazionalità: Giappone
Anno: 2000
Genere: Erotico, Fantascienza, Grottesco, Visionario
Durata: 90 min.
Regia: Shu Lea Cheang
Preparati a dimenticare tutto quello che sai sul cyberpunk, sul porno, sulla tecnologia e sulla fantascienza. I.K.U. di Shu Lea Cheang non è solo un film, è un esperimento, un virus visivo che ti infetta con un’overdose di sesso, pixel e distorsioni digitali.
Siamo in un futuro dove il piacere sessuale è diventato un prodotto da scaricare come un’app. La GENOM Corporation ha creato gli I.K.U. Coders, androidi con l’unico compito di raccogliere dati sul sesso umano per trasformarli in aggiornamenti da vendere al pubblico. Il nome non è casuale: “I.K.U.” suona come “Iku”, che in giapponese significa “venire”, e nel film, l’orgasmo è letteralmente un’unità di misura. L’androide Reiko è la nostra guida in questa Tokyo surreale e ultratecnologica, dove tutto è un mix tra sesso e software. Ma come ogni buona IA, inizia a sviluppare una propria coscienza, mettendo in crisi il sistema che l’ha creata. In questo universo di corpi sintetici e desideri digitalizzati, la distinzione tra umano e macchina diventa sempre più sottile, fino a dissolversi completamente in un trip psichedelico di luci e suoni.
Se Blade Runner fosse stato scritto da un collettivo di hacker giapponesi appassionati di hentai e glitch art, forse avrebbe avuto qualcosa di I.K.U.. Ma anche così, probabilmente non ci si avvicinerebbe neanche lontanamente. Questo film non ha paura di spingere il cyberpunk oltre ogni limite, strappando via l’estetica cupa e nichilista che il genere ci ha insegnato ad aspettarci, e sostituendola con un’esplosione di colori, pornografia sperimentale e corpi che si fondono con la tecnologia.
Shu Lea Cheang non racconta una storia nel senso classico del termine. I.K.U. è un’esperienza, un flusso di dati sessuali che si riversano sullo schermo in un montaggio psicotico e psichedelico. Il film è strutturato come un’interfaccia glitchata: finestre pop-up, immagini sovrapposte, colori sparati e una fotografia che sembra rubata da un futuro troppo caotico per essere compreso.
È cyberpunk? Sì, ma non nel modo in cui lo intende Hollywood. Qui non ci sono hacker in impermeabili di pelle che si ribellano al sistema con pose da duri. Qui ci sono corpi digitalizzati che scopano in realtà aumentata, dati raccolti in orgasmi, software che si fondono con il desiderio. È cyberpunk queer, erotico, anarchico. Un cyberpunk che si libera dalle catene del “cool” per abbracciare il puro delirio sensoriale.
E poi c’è la pornografia. I.K.U. è stato il primo film distribuito negli USA a essere etichettato come “porno cyberpunk”, ma definirlo semplicemente “porno” sarebbe riduttivo. Sì, c’è sesso esplicito, ma non è il solito sesso. È alieno, iperreale, quasi astratto. È una riflessione sulla sessualità nell’era della tecnologia, sulla fluidità di genere, sul piacere come codice binario. Non è pensato per eccitare nel senso tradizionale: è erotismo post-umano, un’esperienza sensoriale che confonde più di quanto appaghi.
Ecco il punto: I.K.U. non è un film facile. Ti chiede di lasciarti andare, di accettare il suo linguaggio visivo frammentato, di immergerti nel suo mondo di software erotici e orgasmi digitalizzati. Se cerchi una narrazione classica, scappa via. Se sei pronto a un cyber-trip che sembra un rave di androidi in un database erotico, allora questo film è per te.
In fondo, I.K.U. è un manifesto: il piacere non è più solo carne, il sesso è un software, il futuro è un orgasmo in loop.