FELT [SubITA]

Titolo originale: Felt
Nazionalità: USA
Anno: 2014
Genere: Drammatico, Esoterico, Horror, Psicologico, Sentimentale
Durata: 80 min.
Regia: Jason Banker

 

Amy è una giovane donna che sta provando a superare sia un trauma passato sia le aggressioni che subisce quotidianamente dagli uomini che la circondano. L’unica via di sono per lei un progetto artistico sempre più scandaloso e degli alter ego che la isolano dai pochi amici rimasti ma che almeno le placano il dolore. L’incontro con Kenny, un ragazzo dolce e premuroso, le darà per un po’ l’illusione di un futuro migliore.

Le esperienze reali della co-sceneggiatrice e protagonista Amy Everson, presenti in Felt non si limitano solo a puntare il dito contro cultura dello stupro, ma servono a realizzare un thriller psicologico al femminile che il pubblico difficilmente dimenticherà.

Per quel che riguarda il 2015 dopo Goodnight Mommy (di nuovo presentato al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, forse nel tentativo di reperire una distribuzione italiana, meritata non solo per l’intrinseca eccellenza del film, ma anche perché candidato al premio Oscar come miglior film straniero), non m’attendo di imbattermi in pellicole di duraturo rilievo, pur riponendo fiducia in una manciata di titoli intriganti passati in secondo piano rispetto alle agognate ferie.

Tuttavia, navigando nel mare magnum filmico, cioè tra le onde dei capolavori e la fanghiglia degli strapiombi, qualche titolo imperfetto ma stimolante, a seconda dei gusti, si trova sempre e quest’anno è osservabile un’aumentata produzione di film di genere spesso con un target preciso, o rapidamente dimenticabili, ma altrettanto spesso con spunti e prospettive originali e la sensazione speranzosa è che questo movimento percepito si coaguli in prodotti più efficaci e solidi (e che spazzino via found-footage/mockumentary che intossicano il mercato da troppo tempo).

Nel mio caso tra i film distribuiti di recente in forme digitali* ha attirato l’attenzione il chiacchierato Felt.

*(un giorno vi racconterò di quando ho acquistato il prescindibilissimo, ma come sempre critically acclaimed, Pieces of talent e m’ha telefonato un impiegato della mia banca chiedendomi che cosa mai avessi acquistato da un mercato estero, tra l’altro a pochi euro, richiedendo il collegamento del conto a Paypal, perché gli horror-maniaci amano l’horror perché hanno vite fantozziane e sarebbe stato più facile spiegare che avevo acquistato un porno thailandese con cefalopodi eccitati)

Consiglio spassionato pre-visione

Se vi collocate fra coloro che si ritengono particolarmente interessati/documentati sulla rape culture, sulla distorsione del gender study* o, più semplicemente, sulle relazioni fra i sessi, sfilatevi subito il coltello dalla bocca perché Felt pecca di eccesso di semplificazioni concettuali (lo potete già notare dal trailer ma la sua forza è di natura visiva e recitativa) e ogni volta che un’opera tocca argomenti a noi cari, o sui quali abbiamo costruito una competenza, le semplificazioni fanno scattare subito riflessi di fastidio.

E non dubito che chi si aspetta un manifesto femminista senza sfumature, contraddizioni o stereotipizzazioni, rigidamente impostato e ideologicamente à la page, potrebbe restare interdetto (a mio avviso sbagliando ma non sono un esperto).

*(etichettato, per distruggerne ogni spunto scardinante, come unicornica ideologia che poi fa il giro e viene abbracciata da estremisti opposti, ugualmente invasati, lasciando malconci donne e omosessuali che pagano le conseguenze di questa diatriba, solo dannosa e non proficua nel nostro paese immaturo e cattotalebano)

Se invece appartenete al gruppo di coloro che sviluppano bolle già al termine femminismo, che ritengono che la rape culture sia mitologica (sussistono inclusioni esagerate, ma suvvia, provate a leggere qualche articolo) o che le droghe da stupro siano un alibi per donne di scarsa moralità (sto parafrasando in modo elegante frasi di rara stupidità pronunciate da uno dei personaggi secondari proprio di Felt), il film potrebbe irritarvi, ma forse proprio voi siete il target giusto per ricevere qualche input su cui riflettere e, chissà, arrivare a domandarsi sto in qualche modo esercitando violenza sulle donne, sono in grado di sentirne la profondità o la sto sottovalutando?

Repulsione

In qualche critica ricorre un frettoloso paragone con Repulsion che, con tutto il rispetto per quella gemma di paranoia, non rende completa ai pregi di Felt.

Se la protagonista del primo è figura inesorabilmente perduta, e il percorso cui assistiamo è solo una discesa all’inferno, la protagonista di Felt invece, tra involuzioni ed esasperazioni e il rinchiudersi nel proprio immaginario artistico e nel travestitismo grottesco, tenta disperatamente di aggrapparsi a sprazzi di serenità, inaspettatamente donati dal belloccio e timido Kevin, dopo aver imparato a difendersi anche con troppi aculei dalle stupide cattiverie dei maschi medi che continua a incontrare.

Perché Amy nutre ancora speranza dopo essere stata quasi distrutta da un trauma.

Potremmo discutere (c’è una discussione dello stesso tenore in ogni articolo su Felt) della qualità e della quantità di questo trauma.

Potremmo lasciarci suggestionare dalla prima teoria di pupazzi trash- assemblati da Amy per dedurre facilmente che abbia subito uno stupro dopo essere stata drogata (e un dialogo demenziale con un ragazzo demenziale sulla non esistenza delle roofies sembra corroborare questa suggestione), ma più il film procede e più il ventaglio di possibilità, fisicamente gravi in modo variabile, diventa ampio.

In tempi di didascalismi necessari per un mondo di analfabeti funzionali la scelta di non rivelare l’esatta natura del trauma è una scelta così silenziosamente urlata da mantenere acceso il cervello perché la conclusione che si deve trarre da questa assenza è che Amy è una donna ferita ed è stata ferita in quanto donna (come spiegherà tra le lacrime nel prefinale).

Se ne dovrebbe anche dedurre che quel trauma è stato l’ultimo di una serie e quando la sopportazione lambisce il suo limite il vaso di Pandora costruito intorno alle emozioni positive si frantuma e ne fuoriesce solo dolore.

Con questa strategia di sottrazione nella costruzione del personaggio, Amy, in quanto larva trans-gender e trans-umana, che si aggira tra le sequoie di San Francisco improvvisando travestimenti minacciosi costruiti con materiale d’accatto addobbato con una protesi fallica, diventa simbolo di altre persone rispetto alla stessa Amy.

C’è in nuce l’ambizione, più o meno consapevole, di rendere Amy uno specchio distorto dell’inconscio femminile quando deturpato dalla violenza maschile, nonostante gli attori interpretino personaggi omonimi, a iniziare da Amy, interpretata dall’artista Amy Averson, e sembri in parte di assistere a un bislacco documentario autobiografico.

Il regista, Jason Banker, è noto proprio per alcuni suoi documentari (storie di vite distrutte e ricostruite), la a spalla impera e i dialoghi, a volte abbozzati e improvvisati, suonano sporchi, imprecisi, naturali, tanto da stridere con quel paio di enunciati iper-scritti che, per mio gusto, avrebbero potuto essere compensati dalle potenzialità visive dell’immaginario strampalato e inquietante di Amy Averson, basato sulla genitalizzazione di qualsiasi oggetto e materiale (un applauso di simpatia per il piatto ispirato a Goatse e al feto abortito di Hitler).

Jason Banker sembra non fidarsi abbastanza non solo del risibile budget con cui ha realizzato Felt ma anche del suo occhio fotografico, tanto spesso brillante quanto spesso insicuro, visti i movimenti di camera che traballano intorno a un’immagine che era già perfetta ai primi frame e avrebbe meritato qualche secondo in più di fissazione nelle retine.

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Invece Banker non vuole o non sa compiacersi dell’impatto autosufficiente del soggetto Amy e si concentra sul lavorare ai fianchi il materiale visivo (ma intendiamoci, ai fini dell’atmosfera e del ritmo generale ha ragione lui e io torto) con una cura tale che Felt, pur essendo un film che illustra una catastrofe emotiva di proporzioni epocali, ma la cui trama sarebbe riducibile a due righe, avvinghia in una trance ipnotica e si fa sentire, al di là degli occhi e dei meri eventi e dei dialoghi, a livello più profondo.

Banker ha gestito pure fotografia ed editing e insieme ad alcune delle scelte di scrittura descritte se ne trae l’impressione complessiva di un progetto amato e sperimentale, forse amato e imperfetto proprio per questo, volto a rappresentare moti inconsci tramite strategie tecno-emotive.

Gli strumenti più evidenti (e più empatizzerete con Amy, più avvertirete come vengono toccate machiavellicamente certe corde) sono le scelte cromatiche e d’illuminazione, pur nella indie- dei mezzi (e alcune sequenze mute in cui solo il corpo travestito di Amy è protagonista raccontano più di quanto potrebbero dialoghi chilometrici, una su tutte la sequenza più leggibile dell’esibizione di muscoli di feltro), e la selezione dei brani della colonna sonora che, quando non sono prettamente descrittivi ma sostenuti da vibrazioni industrial, diventano essi stessi protagonisti, surrogati dei pensieri rabbiosi e delle pulsazioni cardiache di Amy, tanto da rendere vivide scene di per sé di passaggio o imperscrutabili.

My life is a nightmare

Se le manipolazioni tecniche sono la chimica inorganica, gli attori sono la chimica organica che, se ben miscelata, entra in contatto con la tua.

Felt è quasi invisibilmente, ma efficacemente basato, su tanta chimica inorganica che è tenuta strutturalmente insieme da un’artista che è attrice amatoriale, dotata di una voce sgraziata e farfugliante, ma che solo tramite gli occhi esprime una gamma di gioie e sofferenze di terrificante naturalezza.

Non è possibile sapere quanto di autobiografico sia presente in Felt, ma Amy Everson non sembra mai solo recitare, sembra mettersi a nudo senza imbarazzi, nei suoi momenti di follia più estrema, nei suoi sguardi d’amore per Kenny/Kentucker Audley o nell’annuncio di una resa finale durante il quale il sofferto di riscatto violento è talmente palpabile che vorrei assicurarmi dell’incolumità di una certa parte del cast.

Se la gestualità, le lacrime, gli occhi di Amy Everson hanno fatto breccia in una persona difficilmente empatica come me, allora è quasi validato scientificamente che almeno di Felt quest’artista è il cuore pulsante e sanguinante, coadiuvato da comprimarie femminili che costituiscono un raro esempio di solidarietà femminile non coagulato da generica o specifica vendetta verso dei maschi.

Liquidare Amy come una folle o, peggio ancora, la solita donna moderna che odia gli uomini, magari pure a torto, sarebbe un atto manifesto di disumanizzazione o di sforzo di comprensione, sforzo che, provocatoriamente, viene richiesto da una parte di fronte a un trauma indefinito (ma non è quello che vi deve interessare, vi deve interessare solo che c’è un motivo legato alle sue relazioni che l’ha spinta con vigore verso l’alienazione artistica, qualunque esso sia, senza scandagliare o sindacare), dall’altra di fronte a un prevedibile olocausto (ma per un po’ si tifa romanticamente che sia eludibile) che appare razionalmente sproporzionato rispetto al movente, ma assolutamente giustificabile irrazionalmente.

È arduo girare intorno a dettagli fondamentali per non rivelare troppo degli eventi conclusivi che potrebbero avere come obiettivo porre a disagio i maschi spettatori che si ritroveranno a trasecolare durante una trans-vestizione prima della grandguignolesca messinscena di un femminicidio in cui i ruoli sono ribaltati.

Il mostro che ci ucciderà è spesso il mostro che abbiamo contribuito a creare.

La vittima è il mostro a cui abbiamo bruciato il cuore.

Recensione: lennynero.wordpress.com


Ecco un altro film che è più di un film… Una grande opera di finzione più reale del vero.

Dal film schizzano intuizioni e tematiche esistenziali (oltre che psicologiche) come pus dai brufoli di un liceale in crisi ormonale.
Pescando qua e la:
Siamo uno o una moltitudine? 
L’io è uno o un esercito?
Il “rito” del travestimento può aiutarci a capirlo? 
Forse.
(Se per esempio il carnevale non fosse solo la festa della schiuma da barba sui citofoni…)

Mi sovviene in questo momento, proprio mentre scrivo, di un mio conoscente che si rivolse al figlio di Jodorowski per qualche problema suo, e gli fu consigliato di girare per il suo paese vestito da gallina per una settimana. Io non l’avrei mai fatto e mi pare una stronzata anche adesso, ma se l’attuazione può sembrare una cazzata, il significato recondito della cosa invece è interessante.

Fino a che profondità arrivano le radici dei “ruoli” nei meandri sotterranei del nostro essere? C’era chi parlava (e c’è chi ancora ne parla) di “falsa personalità”. Un termine apparentemente banale. Mettersi una maschera può sviluppare la coscienza di doversela togliere, forse. Se le coscienze non fossero in genere troppo annebbiate per cogliere questo genere di indizi.

E se la maschera è una prigione, dove trovare l’agognata libertà?  E fino a che punto dipende da noi?
In un altro filma per esempio, mia adorata Betty, ventenne, d’indole libera come un cavallo selvaggio, saltava staccionate su staccionate ritrovandosi sempre suo malgrado in luoghi inizialmente “presi come un’assolata prateria” per poi rivelarsi crudelmente come antri angusti e soffocanti.

In questo film invece c’è Amy, un’altra piccola Betty, equilibrista sulla linea di confine (borderline).
A quanto pare c’è parecchia saggezza e stupidità insieme nelle terminologie psichiatriche. Saggezza inconscia nella formulazione del termine, e stupidità immensa nell’attribuzione di significato e nel suo uso abituale.
Borderline. La linea di confine tra te ed il tuo ruolo sociale. O tra un ruolo ed un altro ruolo più profondo. Tra una maschera e la propria vera essenza. O tra una maschera ed un’altra maschera un po’ meno elaborata.
E passando di qua e di la dei bordi si corrono rischi di tutti i tipi.  La solitudine, per esempio.  Ma anche la salute. Il cui principio essenziale sta, per l’appunto, nell’equilibrio.

FELT, comunque, racchiude questi ed altri temi fondamentali.
Quelli di cui il Cinema si DEVE occupare.  Anzi: quelli di cui il Cinema inevitabilmente in qualche modo si occupa sempre. E se ne occupa con parecchia sensibilità: non so se avete presente quando alla fine della visione di un film non si nutre alcun dubbio: l’autore sapeva quello che stava facendo.
Anche i motivi di pianoforte della colonna sonora sono perfetti.  Con quel paio di note dissonanti che richiamano allo squilibrio sempre in agguato.

Ma dovrò pur smettere di scrivere…per cui smetto qua.
Buona visione

Fra

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