BARAKA

Titolo originale: Baraka
Nazionalità: USA
Anno: 1992
Genere: Documentario, Spirituale
Durata: 96 min.
Regia: Ron Fricke

Dall’alba al tramonto, una giornata per viaggiare attraverso il mondo e gli uomini che lo abitano.

Baraka è un lungometraggio basato sulla percezione dell’immagine e del suono.

Non c’è un trama perché Baraka affonda le sue basi in una concezione documentaristica di ripresa, essendo composto da immagini catturate in alcuni dei più suggestivi della Terra. Eppure non è solamente un documentario.

Quando nel 1992 Ron Fricke decise di intraprendere la strada che lo avrebbe portato alla realizzazione del film in questione, aveva alle spalle la direzione di un mediometraggio e soprattutto l’esperienza fortemente influenzante dell’esser stato il direttore della fotografia nell’ambizioso e sperimentale progetto Koyaanisqatsi, film documentario di nuova concezione diretto da Godfrey Reggio nel 1982.

Le similitudini fra i due lavori sono molte e ben evidenti, eppure Fricke riuscì ad apportare qualcosa in più di veramente determinante all’idea avuta dal collega Reggio dieci anni prima.

Innanzitutto nella tecnica.

Ciò che è eccezionalmente sbalorditivo è la qualità dell’immagine che davvero mai come in questo caso raggiunge una perfezione tale da rendere incredulo lo spettatore per i primi cinque minuti, ovvero finché occhio e mente comprendono che per la successiva ora e mezza potranno tranquillamente godere indisturbati nella visione.

Una vastissima gamma di colori è perfettamente resa sulla bidimensionalità dello schermo che non faticherà a evidenziare nemmeno gli incredibili passaggi tonali nei giochi luce/ombra che caratterizzano parte del film.

La qualità è talmente alta che quando alcuni abitanti dell’antica città di Bhaktapur in Nepal scopano il terreno, beh, ci sembrerà di poter toccare con mano e respirare la polvere che si è appena innalzata. Così come nei verdi spazi dei campi di riso a Bali, dove l’impressione di poter sentire i profumi dell’erba è tangibile. E che dire del roboante suono delle poderose cascate?

Questo prodigio della tecnica cinematografica è reso possibile in parte da elementi già esistenti e in parte dalla geniale inventiva del regista. Fricke si è infatti progettato e costruito da sé la macchina da presa con la quale, viene veramente da domandarsi come, ha girato il pianeta nei luoghi più reconditi e sperduti per realizzare le sue riprese.

Riprese che sono state effettuate su una pellicola da 70mm invece che con la classica cinematografica da 35mm. Questa è una scelta quanto mai insolita per varie ragioni, che solamente pochi registi avevano abbracciato nel passato. Ricordiamo film come Lawrence d’Arabia, West Side Story, il più recente Hamlet di Kenneth Branagh ma soprattutto quello che meglio sfruttò il potenziale di questo formato della pellicola fu l’avanguardistico 2001: Odissea Nello Spazio di Stanley Kubrick.

Il 70mm è un formato poco compatibile con le sale cinematografiche standardizzate sul convenzionale 35mm [solo più un paio di sale in tutta Italia proiettano ancora in questo formato] e, cosa molto importante, girare un film in 70mm costa molti più soldi.

I vantaggi sono una qualità dell’immagine [e sonora] doppia rispetto al classico 35mm.

Dal 1992 per merito di Fricke possiamo aggiungere alla breve lista dei film realizzati in questo formato anche il suo Baraka che in postproduzione fu poi compressato nelle pellicole da 35mm e distribuito nelle sale mondiali.

Detto ciò, non si pensi che questo film sia soltanto un mozzafiato di superfice!

Tutt’altro.

Prendendo spunto dall’innovativo Koyaanisqatsi, Fricke elabora l’idea di un cinema che non preveda né l’uso della parola, né tantomeno della recitazione. La sua intenzione non è quella alla Lars Von Trier di creare film documentaristici di ciò che accade nella vita quotidiana nei rapporti interpersonali fra i membri di una comunità, bensì è quello di creare un poema visivo e sonoro che indaghi in maniera evocativa il rapporto fra uomo e natura. Anzi, forse converrebbe dire fra spirito-uomo e spirito-natura, in quanto buona parte delle immagini è dedicata a riti religiosi di varie religioni fra loro molto distanti. Questo non per sostenere la forza della religione, ma per documentare la sacralità del gesto che l’uomo compie durate le funzioni religiose. E’ un tracciare l’ombra dello spirito dell’uomo che sfrutta la materia per mettersi in contatto con lo spirito della natura.

Tutto ciò contrasta e stride con le frenetiche immagini metropolitane che caratterizzano la sezione centrale dell’opera, esattamente come avvenne nella parte centrale di Koyaanisqatsi. Ma sé là il regista finisce con il creare un ibrido di estrema ambizione filosofica, qui è una ben più umile immersione nei diversi ambienti che aiuta Fricke a liberarsi da una certa presunzione in favore di una semplice proposta di stili di vita differenti dal nostro.

Per Reggio l’essenziale era denigrare la società contemporanea dell’uomo occidentale, mentre per Fricke non è così. Malgrado la critica di fondo sia implicitamente presente, la sua operazione non ci pone come giudici di noi stessi, bensì come dubitatori di noi stessi. Ciò che vediamo sullo schermo non è il disgusto della condizione umana di adesso, bensì la possibilità di immergersi nell’intima quotidianità di altre società a noi parallele. Non c’è una scelta fra quale sia la migliore, bensì una equa proposizione di ambienti naturali e di ambienti comunitari svariati. E’ la componente atavica e ancestrale che smuove la nostra coscienza, non la critica a noi stessi. Facendo un paragone con qualche lezione filosofica potremmo dire che è una concezione krishnamurtiana del vivere, ovvero non di opposizione a ciò che già esiste bensì di proposta di una nuova serena via per il quieto vivere di tutto ciò che esiste.

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D’altronde questo misticismo dell’essente è ben evidenziato in quasi tutti i momenti della pellicola, per i quali lo spettatore medio occidentale non saprà dare un’interpretazione dei riti inscenati in quel determinato momento se non per sommari capi o per associazione al riconoscimento di un luogo piuttosto che di un altro. Ciò che importa è essere empaticamente parte di ciò che si sta osservando e percependo.

Per proporre ancora un paragone letterario-filosofico-antropologico si potrebbe chiamare in causa quanto affermato nella da poco rivalutata Arte Magica scritta da André Breton e pubblicata nel 1957, secondo il quale di fronte alla produzione che noi oggi consideriamo artistica di società che appartengono al passato e delle quali si sono persi i significati non estetici ma funzionali, sacri e spirituali, l’uomo contemporaneo non deve fare altro che lasciarsi influenzare dall’intrinseco magico dell’evocazione.

Baraka offre davvero molti spunti sui quali sarebbe possibile scrivere ancora e ancora e ancora… secondo me però vale la pena evidenziare come l’intelligenza del regista non si fermi all’immagine e nemmeno al significato dell’immagine stessa, grazie alla conoscenza della del cinema. Alla strepitosa scena accelerata che paragona l’uomo delle città alle formiche di un formicaio [che detta così sembra più che banale, ma è realizzata davvero molto bene] segue la parte di sfalsamento dei significati della parte industriale della società. Se, come abbiamo già evidenziato sono proprio questi i minuti più simili al predecessore Koyaanisqatsi, è proprio qui che emerge la conoscenza di esempi del cinema del passato, tra i quali non si può non citare l’anticipatore e sperimentale L’Uomo Con La Macchina Da Presa girato nel lontano 1929 dal gruppo artistico Dziga Vertov.

Le possibili influenze esercitate nel cinema post Baraka a dir la verità non sono poi così numerose, anche se oggi questo film pare quasi essere un oggetto di culto fra gli appassionati del genere.

Sicuramente il mai visto in Italia, The Fall di Tarsem del 2006 risente fortemente a livello fotografico della lezione data da Fricke, arrivando quasi a un paio di citazioni a livello copiatura.

Terrence Malick è un regista che non sembra essere indifferente a questo tipo di cinema, tanto che il suo Il Nuovo Mondo del 2005 è stato girato sulla famigerata pellicola da 70mm.

Purtroppo la sua presunzione da filosofo lo ha portato a voler strafare in The Tree Of Life, opera pessima nei contenuti ma buona nell’immagine, anche qui, in bilico citazionistico fra lo spaziale Kubrick e il documentaristico Fricke.

Baraka è un’esperienza sensoriale, da provare obbligatoriamente per vivere tutte le possibilità offerte dal mezzo espressivo cinematografico.

Recensione: cinefobie.com

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By Anam

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