
Titolo originale: Sutemose
Paese di produzione: Lituania, Francia, Serbia
Anno: 2019
Durata: 100 minuti
Genere: Drammatico, Guerra
Regia: Sharunas Bartas
Sinossi:
Negli ultimi giorni della Prima Guerra Mondiale, in una regione rurale della Lituania, un uomo solitario ritorna nei luoghi della propria infanzia. Il conflitto è formalmente al tramonto, ma la violenza continua a impregnare il paesaggio e le relazioni umane. Tra soldati dispersi, civili allo stremo e incontri segnati dalla diffidenza, il protagonista attraversa un mondo sospeso, dove la fine della guerra non coincide con la fine dell’orrore. Il crepuscolo del titolo non è solo temporale, ma morale e spirituale: una luce morente che avvolge uomini incapaci di ritrovare un senso dopo la devastazione.
Recensione:
At Dusk è cinema ridotto all’osso, privato di qualsiasi orpello narrativo, come se Sharunas Bartas avesse deciso di spogliare il film fino a lasciarne solo lo scheletro: tempo, spazio, corpi stanchi. Non c’è eroismo, non c’è epica, non c’è nemmeno una vera “storia” nel senso classico. C’è un attraversamento. Un lento, ostinato procedere dentro un mondo che ha già perso tutto e continua comunque a respirare, per inerzia, per condanna.
Bartas gira un film sulla guerra quando la guerra è già finita, e proprio per questo la rende ancora più disturbante. Le battaglie sono assenti, i fronti invisibili, ma la violenza è ovunque, sedimentata nel fango, negli sguardi, nei silenzi interminabili. È una guerra che non esplode, ma ristagna. Una guerra che non urla, ma pesa. Ogni gesto sembra compiuto con fatica, come se il corpo umano fosse diventato improvvisamente troppo pesante per essere abitato.
Il protagonista, interpretato dallo stesso Bartas, è una figura quasi spettrale. Non parla quasi mai, non spiega nulla, non cerca redenzione. È un uomo che osserva, che subisce, che attraversa. La sua presenza è opaca, volutamente indecifrabile, e proprio per questo diventa un catalizzatore: attorno a lui si aggregano frammenti di umanità distrutta, soldati sbandati, contadini sospettosi, donne segnate da una violenza che non ha bisogno di essere mostrata esplicitamente. Tutto è suggerito, trattenuto, lasciato marcire sotto la superficie.
La messa in scena è di una radicalità quasi ascetica. Lunghi piani fissi, movimenti di macchina minimi, dialoghi ridotti a poche frasi essenziali. Bartas non accompagna lo spettatore: lo abbandona. Lo costringe a restare dentro l’inquadratura, a sopportare la durata, a condividere l’attesa, la noia, la tensione latente. Il tempo si dilata fino a diventare materia fisica, qualcosa che grava sulle spalle di chi guarda. È un cinema che non intrattiene, ma insiste.
Il paesaggio gioca un ruolo centrale. Campi spogli, foreste umide, villaggi devastati: la natura non consola, non guarisce, non offre rifugio. È indifferente, quasi ostile. La terra sembra aver assorbito il trauma della guerra e ora lo restituisce sotto forma di silenzio opprimente. Non c’è bellezza cartolinesca, solo una crudezza elementare, primitiva, che rimanda a un mondo in cui l’uomo è tornato a uno stato quasi pre-civile.
La violenza, quando arriva, non è mai spettacolare. È improvvisa, secca, priva di enfasi. Proprio per questo colpisce più a fondo. Bartas sembra dirci che l’orrore vero non ha bisogno di essere messo in scena: basta mostrarne le conseguenze, basta lasciare che lo spettatore intuisca ciò che è accaduto fuori campo. È un cinema che si fida dell’intelligenza e della sensibilità di chi guarda, e che per questo non fa sconti.
At Dusk parla della fine di un mondo, ma anche dell’impossibilità di tornare indietro. La guerra non termina con un armistizio: continua a vivere nei corpi, nelle menti, nei rapporti umani. Il crepuscolo diventa una condizione permanente, una zona grigia in cui non esiste più distinzione netta tra bene e male, colpa e sopravvivenza. Tutti sembrano colpevoli e vittime allo stesso tempo, intrappolati in una storia più grande di loro.
C’è qualcosa di profondamente rituale nel cinema di Bartas. Ogni scena sembra un gesto necessario, non narrativo ma esistenziale. Il film procede come una processione laica, un lento accompagnamento verso una notte che non promette alcuna rinascita. Eppure, proprio in questa ostinazione a guardare il vuoto, At Dusk trova una forma di verità rara: quella di un cinema che non consola, non spiega, non redime.
È un film che chiede allo spettatore di rinunciare alle aspettative, di accettare la fatica, di restare. Non offre appigli emotivi facili, non costruisce empatia tradizionale. Ti mette davanti a un mondo spogliato di senso e ti chiede: quanto riesci a sopportare? Quanto sei disposto a guardare quando non c’è nulla da salvare?
At Dusk è il crepuscolo dell’illusione che la storia proceda per progressi lineari. È il cinema come residuo, come cenere ancora calda. Un’opera dura, scabra, ostinatamente coerente, che non cerca pubblico ma testimoni. E quando finisce, non lascia immagini iconiche o frasi memorabili: lascia un peso. Un silenzio che continua a lavorarti dentro, come una guerra che, anche quando sembra conclusa, non se ne va mai davvero.
