UNKNOWN PLEASURES [SubITA]

Titolo originale: Ren xiao yao
Nazionalità: Cina, Corea del Sud, Francia, Giappone
Anno: 2002
Genere: Commedia, Drammatico
Durata: 112 min.
Regia: Jia Zhangke

Ren Xiao Yao, film che reca sulla sua pelle la difficoltà di continuare a essere, pensare, praticare cinema oggi, offre l’immagine della più rigorosa e dolce delle resistenze: quella di coloro che ancorati al riescono a ripensarlo in virtù della sola forza del loro sguardo.

Jia Zhangke si muove attraverso la tessitura del reale come se fosse una sorta di Gene Kelly lunare. Scrutando persino la più infinitesimale delle increspature del reale, addirittura la più impercettibile, riesce a produrre una sorta di cronaca dell’esserci contemporaneo in forma di musical mutato, rallentato, onirico. Rispetto al capolavoro Platform, Ren Xiao Yao si presenta apparentemente con un progetto meno ambizioso, dai contorni decisamente meno epici. Laddove il film precedente osservava lo scorrere e il farsi della Storia come memoria condivisa della musica, la musica quindi come luogo di narrazione privilegiato dei conflitti della contemporanea, Ren Xiao Yao si struttura intorno a un unico motivo (la canzone che offre il titolo al film) che coagula i desideri, le aspirazioni e le ambizioni dei protagonisti (e che inevitabilmente richiama alla memoria il titolo del primo album dei Joy Division). A differenza di Platform che segnalava lo scorrere del tempo attraverso accelerazioni ritmiche, le metamorfosi dell’abbigliamento giovanile, il nuovo film di Jia Zhangke usa un’unica canzone per dare forma ai microspostamenti dei suoi protagonisti, ma soprattutto per mettere in scena il dolore di una stasi radicale, alla quale è impossibile sottrarsi (e in questo senso il film è molto vicino alla visione del dolore di Ian Curtis).

Constatando dunque l’impossibilità di muoversi dei suoi protagonisti, il regista fissa il proprio sguardo sui loro corpi in attesa di un cenno di vita, di un barlume di rivolta. È il suo sguardo a evocare, a rendere possibile lo spostamento, la possibilità di un altrove (sognato ossessivamente nel ritorno di quell’unica canzone sempre mutata dal ricordo e dalla voce). Il suo ostinarsi a voler bucare il velo della materia delle cose per farne emergere la musica segreta è ciò che permette al film di vivere come progetto e rischio di messinscena. Al contrario di quanto si potrebbe dedurre da una visione affrettata dei suoi film, il suo sguardo cela un profondo dissenso nei confronti del reale. Il suo ostinarsi a filmare durata, spazi e corpi è una sorta di lotta opaca in attesa che l’immagine si spezzi e si riveli altro. Il rispetto profondo, assoluto, nutrito da lui nei confronti del mondo, impedendogli di forzare la mano al reale (cosa che screditerebbe tutto il suo progetto cinematografico), produce una rivelazione recalcitrante, come se il tentasse sino alla fine di non mostrarsi, di restare celato tra le pieghe ingannevoli di una presunta quanto fallace evidenza. Questo sfidare l’immanenza dell’immagine del mondo sul terreno di una messinscena che provocatoriamente si offre come una sorta di calco neorealistico, è il principale détour formale della poetica di Jia Zhangke. La realtà non viene decostruita ma osservata sino al suo logoramento. Sino alla consunzione della sua immagine. Poi, come per un laico miracolo bressoniano, il cinema di Jia Zhangke inizia a vivere di epifanie che, intrecciate e sfilacciate nel corpo di un racconto che si fonda tutto sulla durata, permettono ai corpi di iniziare a danzare.

Il magistero del cinema di Jia Zhangke consiste nel dichiarare guerra al reale non tentando di sostituire a una struttura formale (quella che materialisticamente regola e organizza il flusso delle cose del mondo) un’altra, magari di natura cinematografica, che, seppur più giustificata e difendibile, non otterrebbe altro risultato che di aggiungere inganno a inganno (David Lynch e Brian De Palma sono da anni alle prese con questo dilemma etico). No. Jia Zhangke, attraverso la complicità dolcissima dei corpi che filma, sfida il reale osservandolo cinematograficamente. Al contrario di Ken Loach, che pratica un cinema di sceneggiatura, Jia non pecca di collaborazionismo attraverso l’ingenua speranza che le cose possano essere altro da ciò che sono. In questo modo impedisce al reale di imporsi sulle forme del suo cinema, negandogli persino il più comune e vieto attestato di esistenza (quello che tutto il più triste cinema politico gli conferisce invece senza colpo ferire). Non è un caso che lo sguardo di Jia sia sempre obliquo alle cose, laterale. Come il più raffinato e polemico degli esteti, Jia rivendica un altro sguardo e di conseguenza un altro mondo (e non dimentichiamoci che secondo Cocteau e Truffaut, Rossellini era un’esteta…). È questa l’anima più genuinamente politica del suo cinema, quella che gli permette di muoversi danzando e di assecondare le spinte centrifughe delle tensioni desideranti dei suoi protagonisti. Che poi non basti il cinema per migliorare le cose è evidente dal fluire claudicante dei ritmi, dalle numerosi stasi che bucano il racconto, dalle moto che non ne vogliono sapere di funzionare e che poi come per incanto, come in un film di Buster Keaton, iniziano a funzionare proprio quando non ci speri più. Intanto però abbiamo visto Qiao Qiao pedalare dolcemente in attesa che Bin Bin le rivolga la parola prima di sparire silenziosamente. Tutto l’ineffabile mistero del cinema di Jia Zhangke risiede nell’articolazione musicale di questi momenti che si danno come un respiro intermittente e che si attivano come autentici precipitati emozionali. Tutto si muove intorno a lunghi piani-sequenza e ad azioni ripetute quasi meccanicamente (gli schiaffi che riceve Xiao Ji, Qiao Qiao strattonata sull’autobus). Tutto oscilla fra l’aspirazione a una libertà di movimento ideale (i piani-sequenza appunto che però confinano inquietantemente con quella stasi da cui tentano di evadere i tre amici) e la coazione a ripetere di atti subiti o ripetuti senza speranza. Inevitabilmente la musica permette di pensare un’economia diversificata della presenza dei (segni dei) corpi che, nonostante la precisione con la quale Jia Zhangke osserva il rampante capitalismo di stato cinese, evita al film di precipitare nel pamphlet politico.

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Così Ren Xiao Yao, film che reca sulla sua pelle la difficoltà di continuare a essere, pensare, praticare cinema oggi, offre l’immagine della più rigorosa e dolce delle resistenze: quella di coloro che ancorati al riescono a ripensarlo in virtù della sola forza del loro sguardo. Ren Xiao Yao si consegna così alla nostra memoria come uno straordinario momento di cinema politico perché ci rammenta semplicemente che il cinema è “l’altro reale”, il luogo dove i conflitti non si risolvono ma vengono smascherati, rivelati, portati alla luce. Il cinema di Jia Zhangke entra nel mondo, il nostro, grazie al suo rifiuto netto di accettare quello esistente. E danzando al ritmo di un irresistibile inno cantopop, come Jerry Lewis, come Gene Kelly, mette in campo uno straordinario saggio di guerriglia cinematografica che gli permette di immaginare altre traiettorie, altre possibilità di vita. E a volte chi sembra stare fermo in realtà si sta già allontanando.

Recensione: unive.it

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By Anam

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