TWO YEARS AT SEA

Titolo originale: Two years at sea
Nazionalità:
Anno: 2011
Genere: Documentario, Spirituale, Sperimentale, Visionario
Durata: 88 min.
Regia: Ben Rivers

Un uomo di nome Jake vive in mezzo alla foresta, dove si aggira in qualunque condizione climatica facendo sonnellini nei campi e nei boschi avvolti dalla nebbia. Costruisce una zattera per passare il tempo seduto in riva a un lago. Dorme in una roulotte che fluttua su un albero. Lo si vede in tutte le stagioni, mentre conduce una frugale vita di sussistenza, trascorre il tempo dedicandosi a strani progetti, vive il sogno radicale di quando era più giovane, un sogno per realizzare il quale ha trascorso due anni di lavoro in mare.

Con il LFF ormai alle spalle, e lontani dall’euforia del momento, si riesce finalmente a tornare indietro e ad osservare con più sincerità quelli che sono stati i film che hanno lasciato qualcosa dentro. Nel vasto programma del festival, circa 204 pellicole, la selezione personale dei film, che è avvenuta prima in base alle mie preferenze e curiosità varie, ha lasciato poi finalmente spazio un po’ al caso e un po’ all’istinto, portandomi davanti a delle opere di cui non sapevo proprio nulla.
Senza aspettarmelo, mi ritrovo a pensare proprio a loro, a quei film che in un primo momento avevo messo da parte per fare spazio ad altro che sembrava più interessante per tutto il buzz che ci girava attorno. “Two Years At Sea” è stato certamente uno di questi. Ciò che mi ritorna in mente, a quasi un mese dalla fine del festival, sono proprio le scene di vita di Jake, protagonista solitario del bellissimo lavoro in bianco e nero dell’artista inglese Ben Rivers.
Presentato in prima mondiale al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, “Two Years At Sea” si aggiudica il FIPRESCI Award come miglior film, vince il Tiger Award a Rotterdam, e in Inghilterra, dove riceve una nomination per il Jarman Price, viene presentato all’interno della sezione Experimenta del LFF. La trama, infatti è molto sperimentale. È un viaggio in una natura mistica e selvaggia che porta con sé un altro viaggio: quello dentro se stessi. Un metaviaggio, se così lo si può definire, che comincia solo quando si lasciano dietro tutte quelle domande automatiche del tipo: “Ok, ma quando finisce questa scena? Ma non sarà mica tutto così? Ma non succede niente qui?!”.

Quando finalmente ci si lascia andare e si accetta che non c’è niente da capire, ma solo da sentire, inizia con Jake un lungo viaggio di meditazione, un cammino alla ricerca del nulla e, forse proprio per questo, della propria pace interiore.
“Two Years At Sea” è il primo lungometraggio di Ben Rivers, il cui lavoro ha come tema portante proprio l’esplorazione di territori selvaggi e sconosciuti e ritratti intimi e sinceri di personaggi particolari. Questo film segue le azioni banali e quotidiani di Jake (Jake Williams), un uomo che deliberatamente decide di vivere come un eremita nel mezzo delle bellissime e remote foreste scozzesi. Girato in bianco e nero, è un lavoro a metà tra il documentario e la fiction, realizzato con una delle ultime scorte di un 16mm sgranato, e filmato con un modello di camera ormai fuori mercato. Il risultato è un lavoro ipnotico che cattura in maniera incisiva la strana esistenza del suo unico protagonista e il susseguirsi delle stagioni. Ben Rivers esegue anche il montaggio, lavorando con un solo sound designer che realizza un lavoro altrettanto notevole.

Meditando in bianco e nero

“Two Years At Sea” è uno di quei film che sfida il linguaggio cinematografico e le sue strutture, dove apparentemente non succede nulla, non ci sono dialoghi e non c’è una trama che si evolve. Eppure riesce a raccontare tra le righe molto di più di tanti film a base di colpi di scena. È un dialogo con se stessi senza parole, fatto di immagini catartiche, dove la natura è metafora di un mondo puro perché non ancora adulterato, perché libero dall’intrusione umana. Rivers riesce ad entrare nell’anima di questo personaggio che sogna di vivere in autonomia nella foresta, con uno sguardo che si sofferma sulle piccole cose. Ci racconta delle sue abitudini quotidiane così come avvengono a mano a mano che Jake, con i suoi ritmi bizzarri, prosegue questo suo stile di vita. Non c’è niente di più che a Rivers interessi oltre al rapporto di quest’uomo con se stesso e la natura che lo circonda. Anche il passato di Jake diventa un momento marginale che ci viene raccontato a pezzi attraverso qualche foto, dove lo si intravede con quella che doveva stata la sua famiglia, nella stessa casa dove vive ora.
Rivers sperimenta con la durata degli shots, creando dei momenti di notevole intensità. Uno dei piu memorabili arriva a metà del film e ritrae Jake nei suoi tentativi di guidare una zattera da lui stesso costruita, nel mezzo di quello che sembra un lago. Con una camera sempre fissa e un montaggio che crea lentamente suspense, lo vediamo prima affannarsi mentre prepara la sua imbarcazione e poi finalmente immergersi in e restare lì, circondato dalle montagne, mentre si gode un meritato riposo mistico, steso sul suo lettino. L’effetto contrastante di queste due scene è un momento chiave che rivela quelle che, in fondo, sembrano le motivazioni dietro l’estrema scelta di vita del protagonista: il senso della sfida e della lotta con la natura per trovare una pace interiore. Un rapporto di sfida con la natura selvaggia e la ricerca della “destinazione” che ricorda vagamente il Fitzcarraldo di Herzog, in una versione però più ascetica e idealista.
Certamente il film, per chi non fosse abituato a questo tipo di linguaggio, può aver un effetto soporifero… soprattutto se si considera che Jake di pisolini se ne fa tanti, è forse la cosa che ama fare di più. In fondo la maniera migliore di approcciare quest’opera è vederla come un’ esperienza di meditazione, come un omaggio alla determinazione di uomo che si sfida a sopravvivere con poco, che ama l’essenziale, il dono della bellezza della natura e la sua collezione di musica blues che, assieme al suo grammofono e ai suoi libri, sono gli unici compagni di vita e di viaggio.
Ciò che resta è questo lavoro sul tempo, su questa bellezza infinita dei paesaggi e sulla curiosità che si sviluppa attorno ad un personaggio che di storie interessanti da raccontare ne avrebbe tante, ma che invece resta in donandosi con sincerità.
Rivers va ammirato per il coraggio e la pazienza nel mettere insieme un film che sembra essere proprio adatto a questi tempi in cui l’economia mondiale barcolla gravemente e la ricerca per nuove soluzioni di vita diviene un’esigenza percepita in maniera sempre più forte.

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Recensione: taxidrivers.it

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By Anam

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