TUMBBAD [SubITA]

Titolo originale: Tumbbad
Paese di produzione: India
Anno: 2018
Durata: 104 min.
Genere: Drammatico, Fantastico, Esoterico, Horror
Regia: Rahi Anil Barve, Anand Gandhi

Sorprendente opera prima che si muove nel terreno del fantastico e dell’orrore per narrare la tensione antisociale di un’intera nazione (e del mondo intero) Tumbbad apre le danze della trentatreesima edizione della Settimana della Critica a Venezia svelando un volto poco noto del indiano contemporaneo.

Rapacità
India, XIX secolo: ai margini del fatiscente di Tumbbad vive Vinayak, testardo figlio illegittimo del signore locale, ossessionato dal mitico tesoro dei suoi antenati. Il ragazzino sospetta che la bisnonna, strega vittima di una maledizione, ne conosca il ed è da lei che scoprirà dell’esistenza di una divinità malvagia posta a guardia del tesoro. Quella che inizia con una manciata di monete d’oro, si trasforma in una brama vertiginosa che crescerà per decenni, un’avidità irrefrenabile che trascinerà Vinayak sino ad un epico regolamento di conti… [sinossi]

Tumbbad, il film che inaugura ufficialmente – fuori concorso – la trentatreesima edizione della Settimana Internazionale della Critica di Venezia, si apre con la citazione rossa su schermo nero di una frase attribuita al ‘Mahatma’ Gandhi: “Il mondo ha abbastanza per le necessità di tutti, ma non abbastanza per l’avidità di tutti”. Una citazione per niente casuale, e non solo perché il tema centrale del film d’esordio di Rahi Anil Barve (ma alla lavorazione nel complesso, compresa la messa in scena, ha contribuito anche Adesh Prasad) è proprio l’avidità e la ricerca spasmodica e ininterrotta di denaro, di potere economico, e soprattutto di possibilità; il riferimento a Gandhi, in un’opera che si articola attraverso tre passaggi storici (il 1918, il 1933 e il 1947) acquista un valore prettamente politico, ispessendo la trama in un continuo campo/controcampo ideale tra la finzione scenica, dove si parla senza alcun timore di demoni, di dee e di tesori maledetti, e la realtà. La storia del primo Novecento indiano, che in modo così forte e netto ha segnato il destino del subcontinente anche nei decenni a seguire, passa sotterranea ma non invisibile in Tumbbad, è parte integrante del sogno di potere e di conquista del suo protagonista, avido fin dalla primissima infanzia e destinato a seguire senza posa l’odore delle monete d’oro anno dopo anno, decennio dopo decennio.

Il primo dettaglio che salta immediatamente agli occhi durante la visione del film è la volontà da parte dei due registi di lavorare senza tentennamenti sul genere: Tumbbad è un fantasy visionario, che scivola ben presto dalle parti dell’horror e da lì non si discosta. È un film che parla di leggende della tradizione popolare e le mette in scena come se fossero parte integrante di una società vessata – l’India è ancora sotto il giogo britannico – ma vessatoria a sua volta. Barve e Prasad hanno il coraggio di far coincidere fin dall’incipit lo sguardo dello spettatore con quello di Vinayak, bambino bramoso e testardo, che ha come unico scopo nella vita, anche nella vita adulta, quello di scivolare nel ventre della dea nascosto all’interno del mitico palazzo di Tumbbad per depredare il demone Hastar, che nel borsellino tiene delle preziosissime monete d’oro antiche come il tempo stesso. Vinayak non è un eroe, tratta il fratellino – che avrà vita breve – e sua madre, non ha alcun timore a stuzzicare la nonna incatenata al letto da quanto Hastar l’ha trasformata in un demone, e allo stesso tempo lascia che il suo unico e migliore amico, al quale deve anche il suo potere economico (visto che è lui ad acquistare ogni volta le preziose monete), vada incontro a un destino barbaro. Eppure lo sguardo dello spettatore è sempre con Vinayak, che esclusa la prima sequenza – nella quale la madre dei due bambini è a servizio dal signore di Tumbbad, patrigno dei piccoli – è perennemente in scena. Una scelta non priva di coraggio, e che dona al film un’aura tenebrosa: non c’è luce alla fine del tunnel, perché se da un lato agiscono i demoni dall’altro il mondo tangibile è ancor più mostruoso e ferale. Lo è perché dominato da inumane, classiste, in cui solo chi ha accesso al denaro può conservare una vita dignitosa.

Sono due le costanti in Tumbbad. La prima è l’onnipresenza di Vinayak, e la seconda è quella di una pioggia incessante, fitta e che non sembra poter avere mai una fine. È la pioggia che cade su chi non ha ombrello, né difesa di alcun tipo. Il sogno di Tumbbad è anche quello di scalare la piramide sociale, di ottenere potere, di poter diventare il vessatore, e non più il vessato. Una catena che non ha a sua volta fine. Il fuoco può essere creato dall’uomo per far luce – e per liberare le anime indemoniate – ma la pioggia è lì da prima. La pioggia è lì da sempre. Cade, e continua a cadere, scalfendo il territorio e costringendo gli uomini e le donne a un supplizio ulteriore. Si diceva di Gandhi, e della citazione posta in apertura che condanna l’avidità umana. Nell’articolare il film in un trentennio o poco meno, tra il 1918 e il 1947, i due registi colgono tre aspetti fondamentali della storia indiana. Nel 1918, con Vinayak che ancora vive con la madre e il fratellino in una capanna nei pressi di Tumbbad, Gandhi guida la disobbedienza civile dei coltivatori dell’indigofera nello stato del Bihar, primo fondamentale successo contro i latifondisti britannici. Nel 1933, quando Vinayak riesce per la prima volta a conquistare qualche moneta d’oro dalla saccoccia di Hastar, Gandhi compie i suoi ultimi atti direttamente politici prima del ritiro a vita spirituale. Nel 1947, infine, si festeggia l’indipendenza dall’Impero Britannico. Una festa che prelude già all’omicidio di Gandhi, direttamente evocato in Tumbbad nella sequenza in cui Vinayak parla con due esponenti politici che si riferiscono a Nathuram Godse, l’indù radicale che sparerà i colpi di pistola contro il Mahatma, come “il nostro amico”.

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C’è dunque una profonda vena pessimista che si muove nel corpo del film: non esiste reale speranza, e le classi meno abbienti sono destinate a rimanere tali. Si può progredire socialmente solo con l’inganno, con l’omicidio, guidati da una rapacità che è l’unica vera madre. Non il ventre della dea, non un rapporto familiare che è solo l’infinita replica di uno schema mostruoso: la maledizione si trasmette di nonna in nipote, di padre in figlio. È la maledizione di una famiglia, ma anche di uno Stato, di una società, di un intero mondo dominato dal profitto. All’interno di un meccanismo popolare che funziona alla perfezione, e che intrattiene tenendo con il fiato sospeso gli spettatori – l’ultima discesa nel ventre della dea ha un potere visionario che lascia abbagliati, grazie anche alla bella fotografia lavorata da Pankaj Kumar, che si muove tra il livido blu grigiastro della pioggia e il rosso del ventre – Rahi Anil Barve e Adesh Prasad condensano anche una riflessione tutt’altro che banale o semplice sulla natura umana e sull’India. Chapeu.

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