TOKYO RAMPAGE (SubITA)

Titolo originale: Poruno sutâ
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1998
Durata: 98 min.
Genere: Drammatico, Thriller, Azione
Regia: Toshiaki Toyoda

Arano, un giovane disadattato, ribelle e scontroso, arriva a con una borsa piena zeppa di coltelli. È convinto che gli siano ormai inutili (“Siete inutili… Nessuno ha bisogno della yakuza” è il suo mantra). Per sua (e loro) sfortuna Arano finisce proprio per essere invischiato in un gruppo di giovani gangster, appartenenti alla yakuza di Shibuya, il cui vecchio boss, invece, sostiene quanto sia necessaria un’organizzazione delinquenziale strutturata, pena l’anarchia totale. Da lì in avanti Arano diventerà una sorta di silenzioso giustiziere urbano che, da un lato, sembra accarezzare il di Alice, un’altra “spostata” incontrata sulla sua strada, di fuggire alle isole Fiji, mentre dall’altro sogna, a occhi aperti, coltelli che piovono dal cielo.

Un esordio alla regia che non passa inosservato, quello dell’allora ventinovenne Toyoda Toshiaki, sin dall’incipit con la “schitarrata” grunge sul volto di Alice che preannuncia l’ingresso in scena di Arano, giacca mimetica verde, borsa blu da sportman club del Madison Square Garden, che cammina in ralenti in un incrocio di Shibuya verso la camera facendosi strada tra la folla anonima (memorabili le spallate contro i passanti). Nella stessa sequenza avviene la presentazione dell’altro protagonista, Kamijo, quasi un alter in versione edulcorata di Arano: tanto è grunge e silenzioso quest’ultimo, quanto è elegante e spavaldo l’altro che, in un tête-à-tête prima con una e poi con lo stesso Arano, finisce per perdere il coltello serramanico. Se dovessimo abbozzare una psicopatologia delle bianche del film, il coltello avrebbe certamente un posto d’onore, contrapposto alla katana che il vecchio boss sfoggia con fierezza (“Questa spada è molto affilata”): sembra quasi che Toyoda voglia sottolineare l’inutilità dei vecchi armamentari, di un tronfio passato (e tuttavia verso il finale la katana tornerà protagonista), rispetto ai più agili e insidiosi coltelli oppure ad altri oggetti contundenti di uso quotidiano. Ad esempio quando Kamijo e i suoi aggrediscono un tirapiedi di Matsanunga, il rivale del vecchio boss, lo fanno muniti di ombrelli: Matsanunga li osserva e, dopo aver tranciato un sigaro con un cigar cutter, li deride (“Che cosa sono questi ombrelli?! Sta piovendo qui?”). E ancora, nel prefinale, la banda dei ragazzini dello skateboard aspetta Aruno per vendicarsi di una sua ennesima coltellata e lo fanno armati di mazze da baseball e bastoni.

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Lontano dall’ambiente yakuza, Toyoda mostra un altro lato del personaggio di Arano, complice anche la figura di Alice, l’unico personaggio con cui si viene a creare un’empatia. È lei trascinarlo, o almeno a tentare di trascinarlo fuori dai suoi cupi, a proporgli di fuggire insieme alle isole Fiji. Toyoda, a dispetto dell’atmosfera nichilista e violenta di buona parte del film, in queste situazioni sembra prendersi una pausa raccontando momenti di tenerezza, come il pudico bacio sulle labbra in primissimo piano, o l’impaccio, misto a sensualità, che provano entrambi sullo skate, stretti l’uno all’altra in un abbraccio precario. Questi momenti di stasi, dove la regia si fa meno nervosa e più attenta alle psicologie dei personaggi, si ripetono anche nell’incontro tra Arano e Kamijo al cimitero quando il primo, chiedendosi quale sarà il suo epitaffio, colpisce ripetutamente con il coltello una lapide di marmo, mentre la camera si allontana e il buio diminuisce progressivamente, quasi un preludio alla notte che precede l’ultimo clapping game con Aoki sul tetto della scuola in Blue Springs.

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Ma, tornando al coltello, non possiamo non ricordare le due scene forse più iconiche del film: la pioggia dei coltelli e la morte, quasi rituale, di Matsanunga, trafitto, come una sorta di san Sebastiano, da decine di coltelli in petto. La resa dei conti è vicina: Toyoda organizza il climax e l’anticlimax dello scontro finale con maestria scorsesiana, senza dimenticare un pizzico di e irriverenza (vedasi i baccelli di soia in testa al vecchio boss, ma anche l’uccisione dei due corrieri americani in un’atmosfera alla Goodfellas).

Finale bellissimo e struggente, che rimarca l’uso dello diegetico fatto da Toyoda, che gioca sapientemente con il fuoricampo dovuto al saliscendi delle strade, spesso accentuato dal teleobiettivo che fossilizza e imprigiona i personaggi in un falso movimento che non sembra condurre da nessuna da parte.

Valerio Costanzia – sonatine.it

By Anam

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