TITO AND THE BIRDS (SubENG)

Titolo originale: Tito e os Pássaros
Paese di produzione: Brasile
Anno: 2018
Durata: 73 minuti
Genere: Animazione, Drammatico, Fantastico
Regia: Gabriel Bitar, André Catoto, Gustavo Steinberg

Tito è un ragazzino timido di 10 anni che vive con la madre in una città sospesa nella paura. All’improvviso scoppia un’epidemia insolita: le persone si ammalano ogni volta che si spaventano. Tito scopre che la chiave per una possibile cura risiede nella ricerca del padre, uno scienziato scomparso, che aveva costruito una macchina capace di comprendere il canto degli uccelli. Con l’aiuto dei suoi amici, Tito intraprende un viaggio per salvare il mondo, ritrovare il padre e scoprire chi è veramente.

Tito e os Pássaros è un film che respira in un contesto sospeso tra un’allucinazione espressionista e un’allerta profetica. È come se gli autori avessero deciso di incarnare la paura stessa in un’animazione viva, fatta di pennellate a olio, distorsioni grafiche e gesti sospesi: ogni scena sembra un sogno febbrile, con il presente che sembra sempre sul punto di frantumarsi sotto il peso del terrore.

La paura nel film non è solo un’emozione: è un virus, un sistema politico occulto, un’arma strategica. Non è un’iperbole da cartone per bambini, ma una mappa complessa del potere mediatico: notizie sensazionaliste, tv, un presentatore manipolatore che specula sul panico, condomini “sicuri” che spacciano un sogno autoritario. Questo mondo è arrugginito, ma ancora pieno di vita contorta: un regno in cui l’informazione è la moneta più pericolosa.

Tito è l’eroe fragile e necessario: un ragazzo che non ha mai smesso di credere in suo padre, che non ha paura di scavare tra rovine mentali per ricomporre la macchina perduta. La sua innocenza è parte della resistenza: non è cieco, ma sorveglia il caos con occhi lucidi, come chi sa che ascoltare è più potente di urlare. I suoi amici – Sarah, Buiú e altri – non sono semplici aiutanti: sono co-cospiratori di un’idea di liberazione.

La macchina di Rufus, il padre, non è un mero congegno: è simbolo di una lingua antica, quasi mistica, il canto degli uccelli come forma di verità perduta. È la nostalgia di un ordine primordiale, di un tempo in cui l’umanità poteva dialogare con la natura, e non soltanto avere paura. La loro ricerca è anche una resistenza: leggere il mondo con un orecchio diverso, uno che non ascolta solo l’ansia ma il canto.

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Visivamente, il film è un capolavoro di imperfezione intenzionale. Le animazioni sembrano dipinte a olio, con tratti che tremano, contorni che vacillano, fondali che si deformano man mano che la paura cresce. Non è digitale “perfetto”: è un quadro vivo che pulsa, si incrina, si contorce al contatto con l’angoscia. Lo stile espressionista usato dagli autori rimanda a pittori inquieti: le figure umane non sono cartoni teneri ma creature distorte, segnate da gesti goffi e profondi.

Il messaggio politico e sociale è potentissimo, ma mai didascalico: è un’allegoria. Il regista non urla “attenzione, il potere manipola la paura”, lo mostra come un sistema sotterraneo, con i suoi ingranaggi più fragili e perversi. La televisione, i palazzi, le comunità “sicure”: tutto è parte di un disegno più grande, dove il panico sistemico diventa un capitale. E Tito, con la sua macchinina, è un piccolo sabotatore che cerca il suono autentico dietro il rumore.

Ma non è solo politica: è una storia di identità. Tito non cerca solo di salvare gli altri, ma di ritrovarsi. La sua missione è anche quella di un figlio che non ha visto il padre da tempo, che non sa se il suo progetto era geniale o pericoloso, e che deve confrontarsi con la solitudine che si annida nei ricordi. La cura dell’epidemia è al contempo cura di sé.

Emotivamente, il film è un’altalena: momenti di silenzio assoluto, poi scoppi di colore; attimi di delicatezza, poi spaventi che paralizzano. Il ritmo è misurato, quasi rituale, come se ogni scena fosse un sacrificio al dio del terrore per ottenere una visione migliore. La colonna sonora non è semplicemente accompagnamento: è un respiro sotterraneo che alimenta la tensione e la speranza, una partitura che vibra tra note dissonanti e melodie libere, quasi come un canto di uccelli lontani.

E la morale, se così si può chiamare, non è consolatoria, ma di responsabilità: il film ci ricorda che il potere della paura non va subìto silenziosamente, che esistono micro rivoluzioni possibili – e che ascoltare, davvero, può essere un atto sovversivo. La cura non è una cura magica, è una rinascita: non basta spegnere il panico, bisogna ricostruire una lingua, una comunità, e soprattutto un dialogo con la parte selvaggia del mondo.

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Tito e os Pássaros è dunque un’opera visionaria mascherata da favola: un invito a guardare il nostro presente con occhi diversi, a pensare che il terrore sistemico non è inevitabile, ma costruito, e che la salvezza può essere nelle cose più semplici ma più profonde – come il canto degli uccelli.

By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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