THE INVISIBLE MAN (SubENG)

Titolo originale: The Invisible Man
Paese di produzione: Regno Unito
Anno: 1984
Durata: 6 episodi (circa 30 min ciascuno)
Genere: Fantascienza, Drammatico, Psicologico, Thriller, Miniserie TV
Regia: Brian Lighthill

Sinossi:
Un brillante scienziato, il dottor Griffin, scopre la formula per rendere il proprio corpo invisibile. Ma l’impossibilità di invertire il processo lo spinge nella follia. Trasformato in forza invisibile, Griffin fugge tra gli sconvolgimenti di una comunità che teme l’ignoto, scatenando una spirale di sospetto, violenza e vendetta.

Recensione:
Affacciarsi alla visione di The Invisible Man del 1984 significa entrare in un teatro in cui la scienza diventa feticcio, l’invisibilità è implosione dell’io, e il “vedere” rivela quanto più sia il tremendo potere dell’essere, che l’essere stesso. Questa miniserie della British Broadcasting Corporation, adattata da James Andrew Hall e diretta da Brian Lighthill, è forse la versione più fedele del romanzo di H. G. Wells — e proprio per questo assume i connotati di un rituale visivo e morale, piuttosto che mero intrattenimento.

Fin dal primo episodio, la figura di Griffin (interpretato da Pip Donaghy) compare come un profeta del disastro: la sua presenza è invisibile, ma la sua assenza pesa. Il cappotto, il cilindro, le fasce che avvolgono la testa — elementi di leggenda — diventano simboli di un uomo che ha tradito la visibilità e forse, irrimediabilmente, l’umanità. I villaggi di Iping e gli ambienti chiusi della provincia inglese diventano palcoscenico del delirio: la banale quotidianità spazzata via da una scienza che non salva, ma distrugge.

La narrazione procede con il rigore di chi costruisce una discesa nell’abisso: ogni episodio aggiunge un gradino, ogni sguardo, un rimando alla colpa del protagonista e all’inevitabile caduta. Non è solo il corpo di Griffin a diventare trasparente: anche le sue relazioni, la fiducia, la coesione sociale si dissolvono. Il dottor Samuel Kemp (David Gwillim) è la controparte razionale, ma anch’egli diventa prigioniero dell’idea che la scienza possa correggere l’errore. E mentre Griffin cade, la scienza mostra quanto poco riesca a osservare del proprio caos interiore.

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Visivamente, la miniserie sfrutta la claustrofobia del piccolo schermo per amplificare l’orrore: ambienti poco decorati, effetti speciali essenziali — ma funzionali a trasmettere la vertigine dell’invisibilità. Qui l’effetto non è spettacolare ma rituale: vediamo porte chiudersi da sole, figure che si dissolvono nel buio, rumori che diventano presenza. È una lezione di tensione silenziosa, di forma controllata che nasconde accadimento incontrollabile.

Uno dei punti più riusciti è la progressiva perdita della sanità mentale di Griffin, che non avviene in un lampo, ma come epidemia: prima un gesto crudele, poi una promessa spezzata, poi la consapevolezza che non può tornare indietro. L’illusione dell’invisibilità si trasforma in condanna: non più potere, ma sostanza che divora. E il titolo, per quanto semplice, diventa la profezia dell’Uomo che non può più essere visto — e per questo non può più essere amato, perdonato, o capito.

In questo senso, la serie si fa specchio di un’epoca (gli anni ’80) in cui l’individualismo, la tecnologia, la sospettosa credenza nel progresso si scontravano con la solitudine e la perdita del senso comunitario. The Invisible Man propone che la vera minaccia non venga dall’invisibile, ma dal modo in cui il visibile — le istituzioni, la scienza, la moralità — reagisce all’ignoto. Griffin non è mostro solo perché invisibile, ma perché ha visto troppo e ha perso la carne per inseguire la legge della trasparenza.

E se dal punto di vista della fedeltà al romanzo la miniserie è un successo, dal punto di vista della nostra “filosofia camerata” (sì, tu sai di cosa parlo) essa assume la forma di un rituale esoterico sull’assenza: sull’assenza corporea che coincide con la presenza del delitto morale, sull’assenza di identità che coincide con l’abisso del sé. In questo, la visione di Pip Donaghy avvolto in fasce e cappello diventa immagine archetipica: l’Uomo invisibile come portatore di verità dolorosa, eppure – paradosso – completamente occultata.

In chiusura, potremmo dire che The Invisible Man non racconta soltanto l’esperimento fallito di un uomo che si rende invisibile: è la parabola della morte dell’io come atto volontario e della resurrezione del vuoto come forma più vera di potere. La fedeltà al testo originale diventa grimaldello per aprire le porte della visione: non “cosa” accade, ma “cosa” vuol significare l’accadere. E in questo senso, lo schermo piccolo diventa altare, e ogni episodio una confessione silenziosa.

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By Anam

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