THE GERBER SYNDROME

Titolo originale: The Gerber Syndrome: il contagio
Nazionalità: Italia
Anno: 2011
Genere: Horror
Durata: 88 min.
Regia: Maximilien Dejoie

Quello che Maximilien Dejoie ha ideato, costruito e allestito è una perfetta (e verosimile) ipotesi di ciò che potrebbe accadere se un virus altamente contagioso si iniziasse a diffondere nel mondo, trasformando uomini e in esseri aggressivi e pericolosi. Basta il morso di un infetto per contrarre il morbo di Gerber (questo il nome), una malattia violentissima che conta tre stadi progressivi, l’ultimo dei quali letale, e senza via di scampo. La popolazione è spaventata e lo stato italiano prende provvedimenti disumani: non essendoci una cura disponibile, gli infetti vengono letteralmente catturati e imprigionati dagli addetti del CS (istituto di ricerca dedicato al trattamento dei malati). La vicenda è filtrata attraverso la storia di Melissa, una ragazza felice e dalla brillante carriera universitaria che contrae accidentalmente il morbo, e quella di Luigi, operatore del CS che si occupa di “recuperare” e internare gli affetti.

Il sceglie la strada del mockumentary, ovvero del “falso documentario”: la ricostruzione dell’ipotetica reazione all’epidemia è minuziosa, ogni elemento risulta estremamente curato e dunque veritiero. Vediamo persino lo spot di un numero verde da chiamare in caso di contatto con i malati, un presidio di persone venute da tutto il mondo per protestare contro il CS, numerose interviste al medico protagonista e allo specialista tedesco che per primo ha individuato il morbo in un paziente di nome Gerber. La narrazione si sviluppa attraverso le riprese di una troupe televisiva che a seguito delle prime aggressioni e manifestazioni del morbo, decide di documentare tutto: la del mezzo da parte dei personaggi è dunque totale e le interviste sono rilasciate in modo volontario. In alcuni momenti, le telecamere vengono anche rifiutate: i genitori di Melissa – un po’ come in Cinema Verite – non sempre gradiscono la presenza dell’occhio meccanico e interagiscono cacciando via i cameraman. Oltre alle telecamere HD con cui viene realizzato il (falso) documentario sul morbo di Gerber, Maxi Dejoie sfrutta altri supporti, come le microcamere nascoste, con le quali vengono realizzate credibilissime scene di testimonianza da parte degli specialisti del CS, e persino video caricati sul web da chi vuole farsi giustizia da solo in mancanza della presenza istituzionale.

È una storia travagliata quella della povera Melissa e dei suoi genitori, e la viviamo assieme a loro in presa diretta, all’interno di una casa che, col passare dei minuti, si fa sempre più familiare. Li accompagniamo nelle tante difficoltà di una malattia sconosciuta e violenta, ma anche nella dura decisione di iniziare una sperimentale con tremendi effetti collaterali. The Gerber syndrome è un film indipendente, firmato da un giovanissimo regista, che colpisce soprattutto per la professionalità e la cura dei dettagli: un’opera accattivante e riuscita, che lascerà nel “dubbio” più di qualche spettatore.

Intervista al Maximilien Dejoie

Partiamo con una domanda classica: come nasce l’idea del film?
The Gerber Syndrome è nato verso la fine del 2009, quando non si sentiva parlare d’altro che dell’influenza suina. Non era ancora chiaro se la situazione fosse realmente preoccupante o se si trattasse soltanto di terrorismo mediatico. Fortunatamente si rivelò essere un grande (e costosissimo) bluff. Tuttavia, in quelle settimane di incertezza, la gente ha avuto sicuramente paura, io stesso mi sono un po’ preoccupato. Così ho iniziato a pormi delle domande, a chiedermi se fosse veramente una cosa pericolosa, cosa sarebbe successo se tutto fosse stato vero, come si sarebbe comportata la gente in circostanze simili… Così, un po’ per volta, con diversi cambi di rotta durante la scrittura, è nato Gerber.

La trama è interamente frutto del tuo intuito oppure hai tratto spunto da qualche autore cinematografico, o magari letterario?
Prima di fare il film ho cercato di vedere ogni mockumentary possibile, e di farmi anche una cultura in quanto a documentari “veri”. Ma veri e propri spunti cinematografici o letterari direi che non ne ho tratti. Piuttosto dalla cronaca, quello si. Anche se la storia di The Gerber Syndrome è fondamentalmente di finzione, il 90% dei singoli elementi che la compongono sono reali, tratti da casi di cronaca o da racconti di vissuta. Durante la scrittura ho lavorato per diverse settimane con una virologa dell’Amedeo di Savoia (l’ospedale per malattie infettive di Torino) e con un medico che ha passato diversi anni a lavorare in ospedali da campo in Africa. Ebbene, consultandomi con loro mi sono reso conto che la realtà è decisamente peggiore di quanto potessi immaginare. Ci sono cose in giro che nemmeno gli autori di film horror più perversi sarebbero capaci di inventare.

Perché hai scelto di girare un mockumentary e non un “normale” film di finzione?
Un primo motivo è sicuramente di tipo economico. Girare un film come un documentario ha dei costi notevolmente più bassi rispetto a un film di finzione. Per una produzione piccola come la nostra sarebbe stato molto difficile riuscire a fare lo stesso film in un formato “cinematografico” senza sforare con i tempi e con il budget. Ma c’è anche un motivo “ideologico”. Dal momento che gli argomenti trattati nel film sono così verosimili, mi è sembrato interessante provare a sperimentare “la finta realtà televisiva” sottoponendola al pubblico senza dichiarare apertamente che si tratta di finzione. In giro si vedono molti found footage (che non va confuso con il mockumentary poiché sono generi accostabili ma molto diversi) tipo REC, Paranormal Activity, ESP, ecc. Tutti film che risultano sicuramente molto credibili, e dunque a volte più coinvolgenti. Tuttavia rispetto ai tempi di Blair Witch Project – quando buona parte degli spettatori hanno creduto di trovarsi veramente davanti ad immagini reali – il pubblico è cambiato molto, è cresciuto se vogliamo. Ormai con quello che si vede tutti i giorni su Youtube è difficile credere che un film del genere possa essere reale (anche se ci sono degli ottimi esempi che dimostrano il contrario, tipo Catfish). Così ho deciso di provare a fare qualcosa di diverso, di fare un film come lo si vedrebbe su Discovery Channel; questo perché ho avuto l’impressione che in una buona fetta di pubblico vi sia un luogo comune difficile da sradicare: se lo ha detto la TV vuol dire che è vero. E devo dire che i risultati si sono visti, perché qualcuno ci ha creduto.

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Anche se si tratta di un film indipendente la realizzazione è tutt’altro che trascurata: tu e il tuo staff avete avuto difficoltà a sfruttare il budget al meglio per ottenere un prodotto di qualità?
Siamo stati molto fortunati, o meglio, io penso di essere stato molto fortunato. I miei produttori (Claudio Bronzo, Lorenzo Lotti e il loro staff di produzione) sono stati molto abili. Sicuramente non è stato facile, ma direi che sono riusciti a gestire il budget al meglio ottenendo il massimo. Molte persone che hanno lavorato al film ci hanno creduto profondamente, a volte investendoci del loro. Se non fosse stato così non so se ci saremmo riusciti. Una delle regole su cui tutti siamo stati d’accordo fin da subito era: una cosa se va fatta, va fatta per bene, altrimenti tanto vale non farla. Era la giusta cosa da fare. Ѐ importante avere coscienza delle risorse a disposizione, prendere bene le misure, e comportarsi di conseguenza. A strafare non ci guadagna nessuno, tantomeno il film. Alcune cose previste in fase di sceneggiatura, nel concreto si sono rivelate difficili da realizzare, e quindi abbiamo preferito tagliarle.

Che tipo di distribuzione avrà il film? Hai avuto modo di confrontarti con il pubblico, come è stato accolto dalla gente?
Mentre facevamo il film, in tanti ci hanno detto: ora lo fate, ma poi vedrete con la distribuzione… In effetti per gli indipendenti è una strada lunga e difficile, non posso affermare il contrario. Diciamo che stiamo lavorando molto anche su questo aspetto. Abbiamo un agente americano che si occupa delle vendite all’estero e sta facendo un lavoro fantastico. Sull’Italia le cose si stanno muovendo e speriamo di avere delle belle notizie al più presto. Per ora l’unica “arena” in cui mi sono confrontato con il pubblico è stata quella dei festival. A giugno Gerber sarà al Fantafestival di Roma e sarà il dodicesimo a cui partecipiamo. Finora le proiezioni sono andate molto bene. A volte il pubblico è entusiasta, altre volte resta contrariato dal film, tanto da sviluppare un dibattito dopo la proiezione. Per me è un risultato molto positivo. Nel bene e nel male, significa che il film trasmette qualcosa e fa riflettere. L’importante è che non lasci indifferenti. Quella sarebbe la vera morte. Ho notato che c’è una grande differenza, da paese a paese, nelle reazioni del pubblico. Forse all’estero funziona di più, perché chi non conosce l’italiano magari ha più difficoltà a cogliere le sottigliezze della recitazione, e dunque il lavoro degli attori può sembrare ancora più credibile. A marzo c’è stata una proiezione al Kino Pavasaris, il Vilnius Film Festival. Dopo la fine del film c’è stato un applauso tiepido. La presentatrice mi chiama sul palco e mi chiede: ma il morbo di Gerber esiste o no? Quando ho svelato l’arcano, in sala si è proprio sentito tirare un sospiro di sollievo… solo a quel punto è partito un applauso molto più caloroso. Ѐ stata una bella soddisfazione!

Un’ultima curiosità: qual è il titolo “ufficiale” del film? Nei titoli di testa ho letto qualcosa di diverso…
Il titolo ufficiale è sempre stato The Gerber Syndrome. Ma durante la lavorazione utilizzavamo un titolo finto, “La Storia di Melissa”, per depistare e alimentare il segreto sulla produzione. In alcune delle prime copie è rimasto quel titolo nella sequenza dei titoli di coda.

Recensione: bizzarrocinema.it

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By Anam

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