
Titolo originale: Wojna polsko-ruska
Paese di produzione: Polonia
Anno: 2009
Durata: 108 min
Genere: Commedia, Drammatico, Noir, Satirico
Regia: Xawery Żuławski
Sinossi (IMDb):
Silny, studente plagiato dalla noia e dall’euforia, vive in bilico tra fandom punk, corse in notturna, amori tossici e dogmi nazionalisti che lo soffocano. Quando Magda lo lascia, gli sembra che il mondo si squarci: da lì in poi tutto sarà frammentario, ogni incontro un rituale coperto di fumo e sguardi stanchi, ogni gesto un tentativo di ricomporre uno spirito smarrito.
Cosa succede quando il corpo di una nazione entra in crisi esistenziale? Snow White and Russian Red è quel corpo lacerato. Żuławski ci prende per mano e ci sbatte contro il muro caldo della realtà post-comunista polacca. Silny non è un protagonista: è l’incarnazione di un malessere generazionale che non ha ancora pronuncia per farsi parola. Cammina, urla, rivolge la rabbia a una società che non lo abbraccia, che lo riduce a metafora.
La Polonia post-anticomunista qui è satira e necrologio, sogno da mercatino e catarsi che si graffia. Ogni personaggio femminile diventa un archetipico segno astratto: Magda, gelida e mobile; Angela, gotica autolesionista che mima la morte; Natasza, droga che ride; Arleta, veleno sottile; Ala, innocenza che accende lo sguardo e lo circonda di verità. Sono figure-parabola con cui Silny si specchia e fallisce; il film non le racconta — le incarna, le liquida, le sparge come polvere viva.
Il surrealismo non è estetica, è vento che entra nelle ossa: Silny spinge via Magda con fisica cartoon, la realtà si rompe, la scena si deforma, il sogno entra in modalità paramilitare. Il film diventa conato visivo — vomito di carne fumante e sogno incalzante. Sembra che il cinema sia qui per espellere un’impotenza che non sa urlare, ma che deve comunque sfondare lo schermo.
Guardare Snow White and Russian Red è accettare di vivere la disintegrazione di una coscienza. Non esistono spiegazioni, solo frammenti che esplodono in respiro da rave notturno e rimozione culturale. Żuławski non semplifica: ospita il caos e lo lascia ballare sul pavimento della coscienza condivisa. La sceneggiatura è lembo di un sogno collettivo, la regia è una coltellata nell’ordine, la fotografia una ferita improvvisa sotto la pelle dell’Europa simmetrica.
Questo film diventa – per chi lo lascia entrare – un rito. La musica, i neon, le cadute, i pianti, i colpi — tutto disegna la febbre come paesaggio. E poi la meta-narrazione: Dorota Masłowska, la scrittrice-dèmone, compare in carne e ossa. Non è alone d’autore, è il capitalismo della carne narrativa che mostra il burattinaio mentre scioglie il teatro. Ci guardiamo allo specchio e l’autrice ride: la realtà è quel set che disfacciamo, ogni volta.
Leggendo siti underground e weird cinema, si capisce: qui la guerra non è tra stati, è una guerriglia interiore. Il titolo è bandiera di contrappasso: bianco come innocenza e rosso come delirio. Ma il film trascende anche quella contraddizione: è un Paese che grida in armatura arrugginita, nudo nella sua ride-finibile debolezza.
Se hai il coraggio di guardare là dove le luci diventano lampi accecanti, lo troverai. La fine non ti promette salvezza, ti restituisce il trauma dell’esserci, intero e lacerato.
