THE ISLE [SubITA]

Titolo originale: Seom
Nazionalità: Corea del Sud
Anno: 2000
Genere: Drammatico
Durata: 85 min.
Regia: Kim Ki-duk

Ci sono film che non sono propriamente film. Ci sono film che sono case: spazi da abitare, per anni, in cui vivere, attaccare alle pareti i propri ricordi, uscire, tornare e ritrovare lì dentro emozioni indimenticabili, allo stato incandescente – uno per tutti:C’era una volta in America. Ci sono film che sono scuole: recinti che hanno custodito a lungo l’irruenza della nostra giovane età, palestre in cui, senza alcuno sforzo, abbiamo appreso la forza esplosiva dei sentimenti e modi di sentire, di pensare, di guardare – e qui ci sta bene sia Jules e Jim, sia Amores Perros. Ci sono film che sono labirinti: posti dove le traiettorie s’intrecciano, le direzioni si diramano, i passi falsi si moltiplicano, le indicazioni si contraddicono, le assi del pavimento sono sempre più sconnesse – se avete pensato a Strade perdute, allora ci siete. Ci sono film che sono chiese: territori in cui qualcosa di sacro e rovente si è depositato senza più evaporare, luoghi dove si entra in punta di piedi, con gli occhi bassi, e le labbra a salmodiare parole di speranza e furore – con il cappello in mano, siete dentro a Terra e libertà. Ci sono film che sonoluna-park: veloci come le montagne russe, grotteschi come la casa degli specchi, inquietanti come il tunnel dell’orrore, cigolanti come le ruote panoramiche, scatenati come i lanciatori di coltelli e svitati come i clown – proprio lui, sì: Pulp Fiction.

E poi ci sono altri film, che sono polveriere: spazi in cui entri inavvertitamente, senza che nessuno ti dica del pericolo, di quello che lì potrebbe capitarti – in un modo o nell’altro, sono luoghi in cui tutto esplode, di continuo, posti in cui l’immaginario comune salta in aria, in mille pezzi, e ne esce trasformato, rivisitato, appuntito. Pensate al terremoto sprigionatosi dalla lucida potenza di Full Jacket, alla faglia che si è aperta dalla furia senza pari di Natural Born Killer. Pensate alla shock, alla feritache film del genere hanno scucito nel nostro modo di vedere e di pensare. Come se la nostra mentale, sotto lo sforzo della visione, venisse polverizzata. Come se sulle macerie e le rovine procurate dall’esplosione della visione, qualcosa cominciasse a prendere forma, di nuovo: idee, forze, modi di indagare il reale, tecniche per agitare la vita.

Uno tra i più celebri film-polveriera che io ricordi è L’isola, di Kim Ki-duk. Passò come una meteora alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2000. E salì gli scalini dell’attenzione dopo che il gossip festivaliero ci consegnò la notizia di una spettatrice svenuta durante la visione. Ma per anni, sebbene del film si fosse parlato a lungo, e un’aura maledetta ormai circondasse il suo nome, l’unico modo per vederlo furono le videocassette che la gente si passava dopo averlo registrato da Fuori Orario, la trasmissione fuori-sincrono di Enrico Ghezzi. La cosa interessante era che tutti, prima di affidarti la videocassetta, provavano a raccontare il film. E nella descrizione, su bocche diverse, ricorrevano sempre le stesse sequenze – come se una ferita, non ancora cicatrizzata, richiedesse il potere lenitivo della parola per tentare la sutura di qualcosa di profondo che si era aperto senza più richiudersi. In quelle parole, c’erano: tagli, lividi, delicate devastazioni e pesci. I pesci sono gli animali totemici del film. Ne L’isola, i pesci, fatti a pezzi o riconsegnati all’acqua, sono il genere umano.

L’isola, in realtà, ne contiene molte. C’è un lago, nel film, ed in mezzo tante piccole casette colorate che punteggiano l’acqua. Il lago funziona come un motel. Gli uomini arrivano, affittano una casetta e si ritirano lì per giorni. Se sei un cliente, ci pensa Hee-jin, la custode, a traghettarti in mezzo all’acqua. Come se il tempo fosse rigorosamente ciclico, la gente arriva, prende una casetta, pesca, si nasconde, gioca a carte, scopa con le ragazze che frequentano il lago, e poi fila via, sotto lo sguardo muto e scuro di Hee-jin. La cosa potrebbe continuare così per altri millenni. Solo che lì ci arriva Hyun-shik. La connessione tra Hee-jin e Hyun-shik è immediata. L’equivalente sonoro della sequenza è il click di un lucchetto che si serra: un ingranaggio che si assesta e si completa. Oppure, visivamente, come il film sottolinea più volte, quello di un pesce che abbocca all’amo: anche se è impresa disperata capire chi pesca e chi viene pescato, o in quale profondità l’amo si sia conficcato. Gli uomini sono isole, dice Kim Ki-duk. E l’amore è quel sentimento estremo, tagliente su tutti i lati, appuntito, che aggancia e lega due solitudini.

La particolarità del film è che i due protagonisti non si rivolgono mai la parola. La loro bocca è cucita, le parole non filtrano alcun sentimento. Se avete presente un film come Prima dell’alba, di Richard Linklater, L’isola è il suo esatto opposto. Ad un’alluvione hollywoodiana di parole e racconti in prima persona, Kim Ki-duk sostituisce gesti ed azioni. Resta, tuttavia, il fatto che i due protagonisti comunicano. Ma come, con quali modalità? Con il corpo, sul corpo, attraverso il corpo. La loro carne è la parete da incidere e graffiare per lasciare traccia e testimonianza di un dialogo. La ferita e i lividi sono le frasi perfette che racchiudono il sentimento ed il suo strazio. Gli ami, che di volta in volta i due amanti usano, nel film, sono tutt’altro che metaforici. Le scene madri del film – che gli spettatori ricordano e raccontano – sono quelle in cui gli ami taglienti agganciano la carne in mezzo alla gola (ed è la volta di Hyun-shik) o nelle profondità del sesso (ed è la volta di Hee-jin).

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Il rapporto è talmente estremo, fuori dai confini, tirato al limite delle conseguenze, che le parole non hanno alcuna possibilità di giocare un ruolo. Non possono essere usate come intermediarie di un sentimento. Perché le parole agganciano, saldano, allacciano – ma anche schermiscono, mentono, proteggono. Mentre qui, essendo tutto così assoluto ed estremo, non c’è spazio per menzogne e le protezioni. Il ferito, il corpo lacerato, dice sempre la verità. È pura evidenza capire che la carne che sanguina non può mentire, ed il dolore della ferita non trova altre ragioni che nel medesimo dolore. Nella sofferenza di un corpo straziato c’è la certezza, la garanzia, che tutto è terribilmente sincero, ferocemente autentico, sadicamente reale. La parola tracciata sulla carne, non detta, maesposta, conquista un oggettività che trascende tutto il resto. La scrittura del corpo articola un discorso che la parola può solo vagamente avvicinare o simulare. Nell’estremismo di Kim Ki-duk, nel suo cinema-polveriera che esplode e traumatizza gli spettatori, allora, intuiamo qualcosa che riguarda la comunicazione tra gli esseri umani. La comunicazione, forse, parte sempre da un’incrinatura, da una ferita. Se la persona che mi trovo di fronte è perfetta, dorata, tirata a lucido, con un’immagine che non fa una crepa, io, che perfetto non sono, non riuscirò mai a mettermi in con questa. L’Altro/a mi sembrerà sempre superiore, al di là del mio livello (purtroppo, questo è il cardine della Società dello Spettacolo in cui viviamo). Ma se io percepisco una mancanza, un’incrinatura nell’immagine dell’Altro/a – magari una mancanza e un’incrinatura vicinissima a quelle che possiedo – la comunicazione può accendersi. La comunicazione, in fondo, è condividere le ferite, riparare le incrinature, colmare le mancanze, cucire le rotture, medicare gli squarci, toccarsi lì dove è possibile soccombere.

Diceva, a proposito, Bataille: “Un uomo, una donna, attratti l’uno verso l’altra, si uniscono nella lussuria. La comunicazione che li confonde insieme dipende dalla nudità delle loro ferite. Il loro amore rivela che essi non vedono, l’uno nell’altro, il loro essere, ma la loro ferita, e il bisogno di perdersi. Non v’è più grande di quello del ferito per un’altra ferita”.

Recensione: sentireascoltare.com

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By Anam

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