COMPUTER CHESS [SubITA]

Titolo originale: Computer Chess
Nazionalità: USA
Anno: 2013
Genere: Commedia
Durata: 92 min.
Regia: Andrew Bujalski

 

Quando i pc conquistarono il
Anni Ottanta. Un gruppo di programmatori di computer si riunisce per un torneo annuale in cui dei programmi si sfidano tra di loro nel gioco degli scacchi. Nell’albergo in cui si tiene la convention si muove un’umanità composta da timidi nerd in conflitto o in alleanza tra loro. [sinossi]

Come notava giustamente Emanuela Martini, vice-direttore del Torino Film Festival nell’ che ci ha rilasciato sulla New Hollywood, il cinema americano più vivo e vitale di oggi non arriva da noi, tanto che in Italia risulta praticamente sconosciuto il genere mumblecore, nato all’inizio del 2000 intorno ai film e alle iniziative cinematografiche di Richard Linklater ad Austin e al festival South by Southwest (che si tiene ogni anno a marzo, sempre nella cittadina texana). Caratteristiche di questo cinema, in modo molto schematico, sono il basso budget, la verbosità a volte ossessiva, un certo sguardo verso il cinema francese ma anche verso Dogma ’95, un tono sempre venato d’ironia e di sarcasmo, anti-epico e un gusto per l’understatement. Merito dell’edizione del festival di Torino di quest’anno è stato di dare una – sia pur piccola e non organica – panoramica di questo movimento, da Drinking Buddies di Joe Swanberg, a Frances Ha di Noah Baumbach (per quanto abbia in sé delle caratteristiche, ovviamente, molto newyorchesi), a Prince Avalanche di David Gordon Green, a V/H/S 2 (la declinazione mumble-gore e horror del genere, in cui rientra anche un film come You’re Next, stranamente e fortunatamente uscito in sala qualche mese fa) e Computer Chess, diretto da quell’Andrew Bujalski che è considerato il fondatore del genere con Funny Ha Ha del 2002 (consigliamo, per saperne di più, la lettura del numero di maggio 2013 dei Cahiers du Cinéma, in cui tutta l’ultima parte è dedicata a un approfondimento sul tema).

Fatte le dovute premesse, eccoci finalmente a Computer Chess, un esempio straordinario di cinema filosofico e d’intrattenimento, in cui al centro vi è il tema della competizione e l’incrocio tra l’uomo e il computer, ritratto proprio nel momento in cui – all’inizio degli anni ’80 – stava cominciando quella rivoluzione elettronica che ha finito per rendere indispensabile per ciascuno di noi l’utilizzo dei pc. Dato questo assunto, Bujalski lo connota nel versante della sfida e del gioco, laddove i computer si devono misurare tra di loro per un torneo di scacchi, il gioco più antico e più scientifico che l’uomo abbia mai inventato. Quasi interamente ambientato in un hotel dalle strane contraddizioni (una notte vi sarà una visionaria invasione di gatti), Computer Chess riflette in maniera calcolata e stordente (come in un gioco di scatole cinesi) sul concetto binario, che è per l’appunto alla base del funzionamento dei computer: il bianco e il in cui è girato il film, il bianco e il nero degli scacchi, i nerd schiavi dei pc e la setta mistica che invece professa un ritorno all’interezza dell’esperienza, fino a ipotizzare un mondo “scacchizzato” (il sogno dell’unica ragazza ammessa al torneo che immagina i personaggi come pedoni di una scacchiera) e/o computerizzato (la donna con un chip nella testa). L’ossessione del controllo è il quid della riflessione di Bujalski, che va di pari passo con quella tutta umana e razionalista di prevedere le mosse dell’altro (e dello sfidante a scacchi), e con l’utopia espressa, attraverso l’invenzione del computer tout court, di trasferire il e la sua imprevedibilità nel ristretto e confortevole campo di codici numerici.

E, con una sublime operazione iperrealista, Bujalski mette se stesso e il cinema all’interno di questa dinamica di adorazione della tecnica e aderenza verso di essa. Lo fa girando con una videocamera d’epoca – dunque analogica – e usando come didascalie la stessa grafica grossolana dei pc di quegli anni. L’ideale utopico della macchina che si sostituisca all’uomo, la macchina come organismo perfetto e la tecnica come rifugio dall’indicibile (e dal divino, come suggerisce la setta che si appropria della sala convention dove si tiene il torneo), diventa perciò anche utopia della perfetta macchina-cinema che Bujalski costruisce per noi. Ma, con sottile spirito sardonico, il cineasta ci mostra – all’interno del meccanismo perfettamente architettato – come la falla del sistema sia allo stesso tempo inevitabile quanto disorientante ed eversiva. Va letta in tal senso la gag che diventa fil rouge di uno dei programmi del pc, che suggerisce mosse sulla scacchiera completamente illogiche, facendo perdere la bussola e il senno ai suoi programmatori. Così come, su un piano meta-cinematografico, vanno interpretati tutti i deragliamenti che da un certo punto in poi Bujalski innesta nella messinscena e nella narrazione: l’apparizione imprevista del colore (che diventa un inserto da home movie), il loop in cui rimane incastrato uno dei personaggi in cerca di in casa della madre e che ogni volta che passa per il salone rigira la clessidra sopra il caminetto e infine l’apparizione sconcertante, apparentemente amichevole ma profondamente demoniaca, dei gatti per i corridoi dell’albergo.In questa interpretazione binaria del mondo (e del cinema) è però proprio la dinamica basilare tra senso e non senso a scardinare le certezze, aprendo alle vertrigini dell’interpretazione e dell’esegesi.

Guarda anche  LIKE ME [SubITA]

Uno dei film indispensabili di questa 31esima edizione del Festival di Torino, insieme a La última película di Raya Martin e Mark Peranson e a A Spell To Ward Off the Darkness di Ben Rivers e Ben Russell.

Recensione: quinlan.it

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