
Titolo originale: Runner
Paese di produzione: Stati Uniti, Germania, Francia
Anno: 2022
Durata: 76 min
Genere: Drammatico
Regia: Marian Mathias
Dopo la morte improvvisa del padre, la diciottenne Haas deve riportarne la salma nel suo paese natale in Illinois, realizzando l’ultimo desiderio dell’uomo. Costretta a rimandare il funerale a causa delle piogge, si ferma in una cittadina del Midwest, dove incontra Will, un giovane lavora‑tore isolato e dall’anima sensibile. Tra loro nasce un legame fatto di silenzi, biciclette, vecchie canzoni country e la fragile promessa che due cuori smarriti possono tentare di ricostruire una mappa emotiva nell’immensa solitudine delle pianure americane.
C’è qualcosa di religioso nell’aria spessa del Midwest che Runner non si limita a raccontare: lo affresca.
Marian Mathias, al suo esordio lungometraggistico, si muove come un pittore rituale: ogni inquadratura è un’icona grezza, quasi sacra, che trattiene il respiro di due anime perdute nel ventre della pianura. La morte del padre non è solo un evento: è un’apertura sul vuoto, una faglia che sbriciola certezze e spalanca i corridoi dell’anima.
Haas (Hannah Schiller) è un fantasma vivo, un animale notturno in fuga nel giorno. Will (Darren Houle) è il suo riflesso contaminato: due creatura inquiete che scarabocchiano la loro presenza su un paesaggio impassibile, una terra che dimentica un nome in un giorno e un altro il giorno dopo. Mathias li filma con la lentezza contemplativa di chi ha imparato a sentire il tempo, non a misurarlo. Lontano dai cliché del road movie, Runner è un rito iniziatico. È la purga che avviene tra piogge ostinate, tombe rimandate, canzoni suonate in un campo come se fossero preghiere.
Il rapporto tra i due protagonisti nasce da un’architettura silenziosa. Non dialogano; si incontrano dentro un cielo che piange, dentro biciclette senza fretta, dentro una canzone di Hank Williams che diventa un mantra salmodiato. “How can you be close when you are so far apart?”, si chiede Mathias. E la risposta si nasconde nei fotogrammi, nella geometria del paesaggio, nelle mani che si sfiorano – un vertice emotivo senza esplodere.
Il volto di Schiller è un paesaggio di sfumature: malinconie soffocate, lacrime non versate, ferite che si fermano a mezz’aria. E il volto di Will – un pittore del dolore, un’anima che si dona come un tesoro fragile. I due insieme diventano un singolo corpo spezzato, ma ancora intero abbastanza da sopravvivere all’assenza.
La fotografia di Jomo Fray costruisce un tempo sospeso, sospettosamente senza età: potrebbe essere il 1940 o il 1970 o oggi. L’assenza di tecnologia visibile rimanda a un’America al crocevia tra memoria e oblio, dove ogni silenzio pesa più di un discorso. E la colonna sonora di Para One, un sussurro elettronico contaminato da country antico, ne amplifica l’aura mistica.
Runner è un film che non guarisce.
È un film che ti lascia ferito, con un sorriso accennato, come se la poesia fosse una ferita da coltivare.
Non ti dice “e vissero felici”. Ti dice: “Ora guardati allo specchio.”
E dietro di te, nel vetro, c’è la pianura che stilla luce e cenere.
