
Titolo originale: Resolution
Paese di produzione: USA
Anno: 2012
Durata: 93 minuti
Genere: Horror, Psicologico, Thriller
Regia: Justin Benson, Aaron Moorhead
Sinossi:
Un uomo decide di salvare il suo migliore amico dalla tossicodipendenza e lo incatena in una cabina isolata nel bosco per forzarlo alla disintossicazione. Ma mentre i due cercano di affrontare vecchie colpe e fantasmi interiori, qualcosa nei dintorni comincia a inviare segnali, messaggi, frammenti di storie e immagini che sembrano conoscere la loro vita più di quanto loro stessi osino ricordare. Una presenza invisibile osserva, registra, manipola: come se volesse una storia precisa da loro, una narrazione che deve svolgersi solo in un modo.
Recensione :
“Resolution” è uno di quei film che sembrano piccoli, quasi artigianali, e poi di colpo spalancano una voragine sotto ai piedi. Benson e Moorhead costruiscono un thriller psicologico che si trasforma lentamente in un gioco cosmico, in un dialogo con una presenza che non ha volto né corpo, ma pretende coerenza narrativa come fosse un dio annoiato. Qui l’orrore non è nei boschi, non è nelle ombre, non è nella violenza: è nel fatto che qualcuno — o qualcosa — vuole decidere come deve andare a finire la tua vita.
Il cuore pulsante del film è l’amicizia tra i due protagonisti: fragile, ruvida, affettuosa a modo suo. La scelta di incatenare l’amico tossico è già di per sé un atto disperato, borderline, ma i registi lo trattano con una sincerità che spacca. Questa non è una storia di redenzione hollywoodiana: è un tentativo umano, troppo umano, di salvare qualcuno che non vuole essere salvato. Ma mentre loro litigano, parlano, condividono ricordi, il bosco attorno si riempie di indizi impossibili: foto trovate in posti dove non dovrebbero esserci, video che mostrano futuri alternativi, registrazioni che arrivano da tempi in cui nessuno stava filmando.
L’atmosfera è una tensione sottile, quasi spirituale. È come se il film fosse abitato dallo sguardo di un’entità che ti osserva attraverso i rami, attraverso le crepe, attraverso ogni gesto ripetuto. Un’entità che vuole una struttura, un arco drammatico, un climax. Un’entità che non sopporta il caos della vita reale e cerca di “scrivere” i personaggi in un ruolo. E qui “Resolution” diventa lucidissimo: un film che parla dell’atto stesso del raccontare, della dipendenza dalle storie, della prigione narrativa che tutti ci costruiamo.
Ma non è solo meta-cinema: è anche un racconto intimo, doloroso, pieno di piccole verità che fanno male. La relazione tra i due amici mostra quanto sia difficile cambiare, quanto sia fragile l’identità quando viene guardata da troppo vicino. E ogni oggetto trovato, ogni indizio, sembra dirci che il futuro non è un territorio libero: ci sono trame che bussano alla porta, pretendendo di essere seguite.
La magia del film è che non dà mai spiegazioni. Non chiude, non rassicura, non offre soluzioni. È un’opera che vibra in una zona liminale: tra la realtà e la finzione, tra l’orrore e la malinconia, tra la paura di morire e la paura — forse più grande — di vivere una vita scritta da altri. Il finale non è un colpo di scena, è un sussurro definitivo: la storia vuole la sua conclusione, e non importa se distrugge chi la vive.
“Resolution” è cinema indipendente della specie più preziosa: inquieto, intelligente, pieno di stranezza, ma anche profondamente umano. È un film che sembra guardarti mentre lo guardi, e questo basta per non sentirsi più tranquilli per un bel po’.
