RAT FILM (SubITA)

Titolo originale: Rat Film
Paese di produzione: USA
Anno: 2016
Durata: 82 min.
Genere: Documentario
Regia: Theo Anthony

I ratti come spazio rimosso, immagine di una (dis)umana tendenza alla razionalizzazione. Estremamente ipnotico e suggestivo, Rat Film di Theo Anthony espande uno spunto contingente a film-saggio sulla debolezza dell’uomo. Al TFF in Internazionale.doc.

Horror vacui
La città di Baltimora combatte coi ratti da tempo immemore. Mentre un derattizzatore racconta le sue vicende di quotidiana sfida ai roditori e altri cittadini ricorrono a metodi sadici e violenti, il film assembla riflessioni sempre più ampie su spazio, e razionalità. [sinossi]

Pare che a Baltimora il problema dei ratti sia assai diffuso e radicato nella della città. Infestano quartieri e angoli remoti, minacciano il quieto vivere delle famiglie, innescano una serie di reazioni a catena a partire dall’intervento di solerti derattizzatori, professione di sicuro avvenire in una città di cotanto aspetto. Infestano, minacciano, innescano. Tre verbi che già denotano sfumature negative, identificando nel ratto qualcosa di orribile e ominoso, legato all’ della malattia e della scarsa igiene. Sporco, untuoso, abituato a rovistare nei cassonetti, nel mondo animale niente è altrettanto immagine del rimosso che la famiglia dei ratti, in tutte le sue variazioni di razza e dimensione. Il ratto occupa quindi uno spazio costantemente remoto, eliminato con ogni forza dal visibile e percepibile. Spazio, oltretutto, per lo più inaccessibile all’essere umano (nessuno di noi può farsi così minuscolo da penetrare nei muri o nelle crepe di pareti e cantine). Partendo da tale assunto, Rat Film di Theo Anthony allestisce una riflessione audiovisiva decisamente multiforme, che ricorre a tre o quattro filoni narrativi per impastarli in un flusso del tutto omogeneo. Rievocazione in over dei principali provvedimenti di derattizzazione nella città di Baltimora fin dall’inizio del Novecento con corredo di documenti originali d’epoca, testimonianze di derattizzatori (uno in particolare funge da Virgilio per tutto il racconto) o di cittadini che combattono quotidianamente con questi animalacci, varie crudeltà nei metodi adottati, sprazzi di storia locale di cui si ripercorrono le maggiori criticità in ambito di integrazione tra bianchi e neri, mappe digitali, microambienti ricreati ad arte da chi ama i ratti e se li vive come animali domestici, riproduzioni a scopo empirico di luoghi di omicidi e macabri diorami con le stesse finalità: a un primo sguardo sembrano materiali radicalmente disparati, che Anthony (dis)organizza in un flusso al contempo magmatico ed estremamente razionale. Il risultato è un documentario che interroga lo spettatore, senza dare chiavi immediate e didascaliche per la propria lettura, ma che comunque riflette in modo estremamente suggestivo sulla tendenza umana (ma tremendamente disumana) alla razionalizzazione. La lotta contro i ratti è in sostanza una lotta contro lo spazio rimosso, che, pare voglia suggerire Anthony, nel corso dei secoli ha visto il rinnovarsi incessante di distinzioni e separazioni, di confini e steccati. Partendo dal più corrivo ed evidente correlato nella segregazione sociale subita dai neri, al ratto non soltanto si vorrebbero riservare spazi ben precisi, ma gli si vorrebbero sottrarre anche i suoi spazi (più o meno) lecitamente deputati. La sottrazione dello spazio vitale corrisponde alla morte, prima sociale, poi fisica.

Come in un gioco di scatole cinesi o in una vertiginosa mise en abyme, in Rat Film ogni spazio razionale (e di conseguenza fittizio) ne contiene un altro, e poi un altro, e un altro ancora. Dagli anfratti in mezzo ai muri dove i ratti si nascondono ai contesti ricreati ad arte per trasformare tali sventurati animaletti in oggetti di da laboratorio, alle “doll’s houses” in cui curiosi animalisti li fanno vivere in piena e serena armonia con la propria dimora, Anthony ci ripropone di volta in volta i tentativi dell’uomo di assegnare un senso e un suo ruolo a ciò che sfugge all’ordine e alla razionalità, perché sostanzialmente l’uomo è egoista e del tutto antropocentrico, votato alla totale appropriazione. In tal senso Rat Film non è ovviamente un documento sulla “brillante” vita dei roditori, ma piuttosto il racconto riflesso della debolezza dell’uomo, vittima della tendenza, eternamente condannata alla frustrazione, a una razionalizzazione onnicomprensiva. In pratica, prendendo le mosse dal rimosso e dall’infinitesimale, Anthony mira a parlarci nientemenoché delle derive culturali del mondo occidentale (il finale pseudo-apocalittico sta lì a dimostrarlo, proteso a un’ipotesi distopica derivata da una generale sindrome d’onnipotenza). Ma Rat Film non esaurisce la sua carica espressiva in una serie di suggestioni sulla storia e sul contingente, mirando anzi a una riflessione assoluta in cui la è costantemente messa in scacco. Ché anche nell’ del digitale, perfettissimo poiché sempre rimanipolabile, si aprono crepe, zone che sfuggono al controllo dell’uomo (estremamente efficace in tale direzione appare la riflessione sulle mappe digitali in cui ogni tanto si spalancano voragini di non-senso dovute ad errori o inaccessibili zone di buio, senza dimenticare le inquietanti allusioni a spazi d’irrazionale nelle ricostruzioni dei diorami dedicati a casi insoluti di cronaca nera). Il problema resta sempre il solito, nella Baltimora di inizio Novecento come nelle attuali derive digitali: lo spazio, la sua razionalizzazione, il fascismo della sua occupazione, secondo il quale occupare corrisponde a dominare. Lo dicono le mappe d’epoca in cui i quartieri di Baltimora segnati dal disagio sono sempre gli stessi e accrescono il loro divario sociale di decennio in decennio tramite evoluzioni esponenziali. Lo dicono gli studi condotti sui ratti qualche lustro fa, che furono organizzati in una fittizia micro-società (una sorta di stadio da Subbuteo) ricreata in laboratorio per vedere quali sarebbero state le evoluzioni dei rapporti tra gli animali. Di fatto i ratti finirono per sbranarsi a vicenda per l’occupazione di un maggiore spazio fisico, dando luogo a una propria classe dominante. Altre ficcanti suggestioni di un’opera ipnotica che si avvale innanzitutto di uno straordinario apparato audiovisivo. Amalgamando in un unico flusso materiali originali, supporti cartacei, interventi di Google Maps, riprese e interviste, Theo Anthony attiva anche la suggestiva partecipazione della musica elettronica, con piena adesione alla sfida del documentario. Categoria sempre più vetusta, dal momento che Rat Film non “documenta” niente in senso stretto, non si fa testimone di questa o quella “realtà”. Semplicemente ricorre a materiali non finzionali per costruire una sinfonia di suggestioni. Un film-saggio, e anche estremamente saggio.

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