MILKY WAY

Titolo originale: Tejút
Nazionalità: Olanda
Anno: 2007
Genere: Drammatico
Durata: 82 min.
Regia: Benedek Fliegauf

Una prateria, il ciglio di una strada, un cortile tra i palazzi, un bagno pubblico. Luoghi che si succedono l’uno dopo l’altro, abitati da persone strane, che interagiscono senza bisogno di parole. Esseri dai comportamenti illogici o buffi, vengono osservati da lontano, come fossero oggetto di uno studio etnologico, cui è dedicato un intero pianosequenza.

I miei film precedenti riguardavano ciò che ho perso. Milky Way mostra quello che ho trovato. Questo film dà meno punti di riferimento rispetto a quelli precedenti. Non c’è una storia, non ci sono dialoghi, non c’è un protagonista. Milky Way è un film dell’immaginazione.

La fine di Dealer (2004), qualcosa che pur trattando di argomenti/situazioni/persone a dir poco infime riusciva a proiettare il film nel raggelante siderale, corrisponde all’inizio di Tejút (2007): buio profondo, ribollio lontano in sottofondo, una piccola luce al centro dello schermo; il quadro gradatamente si rischiara fino a mostrare che la suddetta lucina appartiene ad una pala eolica piantata nel bel mezzo del nulla che gira e rigira e la sensazione è che lo farà all’infinito.
Arduo afferrare i razionali perché e percome che sottendono un’opera che si affranca sia da quanto Fliegauf aveva proposto fino a quel momento, sia da quello che si è soliti definire cinema, e quindi un corpo dove sono riconoscibili organi strutturali e componenti sintattiche. Milky Way non ha niente di tutto ciò e di riflesso nulla ha a che vedere con il cosiddetto comune vedere; è sì regolato da una ferrea conformazione fatta di piani fissi sempre suggestivi e (in taluni casi) abbacinanti, ma vista la sua posizione estremista che rinnega gli stilemi convenzionali diventa oggetto totalmente a sé, film-bisettrice ostinato, un lavoro quasi da installazione che etichettare come sperimentale è il ripiego dietro cui nascondersi vista l’impossibilità di archiviarlo all’interno di un genere.

Passando oltre alle questioni categoriali, ritengo comunque che Fliegauf pur essendo il principale responsabile di un cambio di registro così netto, continui il proprio percorso autoriale sotto il segno di una frammentarietà unificante. L’ossimoro è meno stupido di quanto possiate pensare: in Rengeteg (2003) e in Dealer il cammino del si costruiva segmento dopo segmento anche con forti dosi di indipendenza tra uno e l’altro, in entrambi i film c’erano però prospettive comuni che riunivano le singole schegge in un disegno generale. Se lo si desidera questo procedimento interpretativo può essere usato anche per Tejút i cui quadretti eterozigoti vanno ricondotti ad un senso più ampio. Ma qual è il senso? L’urgente punto cruciale è esattamente qui perché Tejút rischia di trasformasi in un aut aut che vede da una parte un possibile additamento con accuse pseudo-intellettualistiche, e dall’altra una di studio prerogativa delle avanguardie che pone un sacco di domande ontologiche sul cinema, su chi lo guarda e sul legame che li riguarda. Io davanti ad un bivio del genere me la svigno ed anche con una sostenuta celerità, lascio ai più intrepidi investigatori semantici la voglia di venirne a capo, una cosetta però la dico: ho adorato la scena col pupazzo di neve, ah, che bella.

Milky Way non è solo un film ma un progetto artistico. È meno di un film, ma allo stesso tempo è molto di più. Questo suona come un paradosso, ma dopo averlo guardato le cose potrebbe divenire più chiare.

Recensione: pensieriframmentati.blogspot.it

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By Anam

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