MEKONG HOTEL [SubITA]

Titolo originale: Mekong Hotel
Nazionalità: Tailandia, UK
Anno: 2012
Genere: Drammatico, Fantastico
Durata: 61 min.
Regia: Apichatpong Weerasethakul

Il cinema di Apichatpong Weerasethakul è ancora abitato da fantasmi, anche al Mekong Hotel, di fronte all’avanzare impetuoso del fiume. A Cannes 2012.
Questi fantasmi

Il film si muove tra differenti realtà, fatti e finzioni, dando corpo alla relazione tra un demone mangiatore di carne umana e sua figlia, due giovani amanti e il fiume Mekong. Un film di dialoghi e di riflessioni. [sinossi]

Chissà se il cinema di Apichatpong Weerasethakul troverà mai la che cerca nel pubblico dei grandi festival internazionali: fin dai tempi del suo esordio nel lungometraggio (lo splendido Mysterious Object at Noon, anno domini 2000), i film del massimo cineasta thailandese contemporaneo [1] sono andati incontro ad accoglienze fredde, quando non proprio avverse, come gli ingloriosi ululati di disapprovazione che accompagnarono sulla Croisette i titoli di coda de Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, riabilitato solo dalla meritata Palma d’Oro ricevuta dalle mani di un entusiasta Tim Burton. Inevitabile, dopotutto, che l’ rarefatta e a volta criptica di Weerasethakul si scontri con la voglia di chiarezza e di prese di posizione nette e (apparentemente) incorruttibili che agita gli animi di buona parte della critica e degli appassionati della Settima Arte.

Qualora si fosse a corto di memoria per quel che concerne l’ di Weerasethakul il consiglio, in ogni caso, è quello di non partire per l’impresa recuperando Mekong Hotel, ospitato tra le Séances spéciales del sessantacinquesimo Festival di Cannes: non perché questo breve lungometraggio di appena un’ora di durata affossi le qualità finora espresse dal regista, ma perché si correrebbe seriamente il rischio di abbandonare la contesa dopo solo pochi minuti. Mekong Hotel è infatti un’opera liquida, sommessa e tenacemente onirica, che parla in maniera aperta solo ed esclusivamente a coloro che possono vantare una certa dimestichezza con il cinema di Weerasethakul. Non che si tratti di una pretesa snobistica, è giusto sottolinearlo: Mekong Hotel prende corpo da quello inesistente – come pura immagine, ma altresì reale sulla carta – di Ecstasy Garden, film che Weerasethakul scrisse alcuni anni fa. Un’opera che prosegue nel solco autoriale tracciato nel corso degli anni, immersione ai dell’autolesionismo nei recessi più inaccessibili della cultura thai, viaggio che scende in profondità ancestrali, ricercando le viscere stesse di una nazione martoriata e ancora alla ricerca di una pacificazione forse impossibile (tra il 1932 e il 1987 la Costituzione thailandese è stata riscritta, seppur parzialmente, ben quattordici volte). La stessa voglia di redenzione che anche il pot, fantasma/vampiro che si nutre di animali e di uomini tipico delle storie del terrore thailandesi, protagonista di Mekong Hotel: come già insegnato da Weerasethakul nel finale di Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, anche in questo l’immateriale e il reale si mescolano senza scontrarsi, e la natura delle cose compie il suo corso senza nessun ricorso a climax emotivi. Il pot non è in scena per condurre nelle tenebre il film, ma piuttosto per segnalare un’urgenza antropologica, perfino politica, necessità sottolineata anche dall’ambientazione stessa del film: il Mekong non è solo il fiume più importante della Thailandia (insieme al Menam Chao Phraya) ma segna il confine nord-est della nazione con il Laos. Un confine tutt’altro che pacificato, simbolo di un’Indocina irrequieta, cui fa da contraltare la messa in scena piana e immobile approntata da Weerasethakul: campi fissi, poco spazio lasciato al fuori campo, dialoghi complessi e articolati (che volano magistralmente dalla vita quotidiana alla scena politica nazionale, sfruttando metaforicamente l’arma del retaggio antropologico), immagini ripetute in un circolo vizioso.

Messa in scena a tratti respingente ma che costringe lo spettatore ad abbandonare la passività tipica della sua postura per confrontarsi direttamente con quanto avviene sullo schermo, cercando di scardinarne le difese naturali e sprofondando in un universo solo all’apparenza incomprensibile. Perché nascosta dietro il velo di un universo mitopoietico per molti occidentali ignoto si può rintracciare una riflessione acuta e dolente su un mondo destinato a scomparire perché sconfitto in partenza, e che solo nell’atroce miraggio della reincarnazione può consolarsi della propria condizione. Fermarsi alla mera apparenza, sbattere la testa contro i tratti peculiari della tradizione favolistica thailandese sarebbe un errore sciocco e deplorevole. Alla proiezione stampa di Cannes l’inversione di tendenza che vuole il cinema di Apichatpong Weerasethakul incompreso dalla maggior parte della critica si è rinnovato di una nuova pagina di storia. Un’altra (l’ennesima) occasione persa.

Guarda anche  TEN YEARS THAILAND [SubITA]

Note
1. Ruolo che ricopre in compagnia di Pen-ek Ratanaruang, anche se la new wave thai dovrebbe essere ricordata quantomeno anche per le opere di Wisit Sasanatieng, Nonzee Nimibutr e Chatrichalerm Yukol, solo per rimanere nel campo dei registi “essenziali”.

Recensione: quinlan.it

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By Anam

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