Titolo originale: Mandara
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1971
Durata: 132 min.
Genere: Drammatico, Erotico, Esoterico, Spirituale, Visionario
Regia: Akio Jissôji
Siamo nel pieno dei tumulti studentesco universitari. È la storia di due amici: Shinichi, ex-rivoluzionario rosso, ma ora disilluso dal futuro, che conduce una vita allo sbando, senza più ideali. Hiroshi, più forte, un eterno rivoluzionario. Individualista ma anche espansionista. Si trovano con le loro rispettive fidanzate in un singolare motel sulle rive del mare. Fuori un castello; dentro un labirinto dall’architettura asimmetrica che mi ha rimandato immediatamente alle descrizioni di edifici titanici e sconosciuti che H.P. Lovecraft faceva nei suoi scritti. Shinichi rimane ancora un giorno. Insieme alla sua compagna si trovano sulla spiaggia dove spensieratamente giocano e si divertono, quando vengono aggrediti da due individui; entrambi perdono conoscenza e lei subisce anche lo stupro. Ritornati nella loro città, Kyoto, ripensano all’accaduto e alla possibilità che il gesto possa essere stato pianificato da qualcuno. Per questo, sospettando del titolare del Motel, decidono di ritornarvi. Lì troveranno la verità sul loro incidente. Si tratta di una setta d’ideologia Buddhista che ha creato il suo piccolo mondo tra i boschi lontano dal mondo e del tutto autosufficienti. Portano avanti un’idealogia utopica, basata sull’annullamento del tempo e quindi del futuro. Dell’erotismo in sostituzione del mero rapporto sessuale, limitato esclusivamente alla semplice riproduzione. L’unica persona soggetta ad amplessi ripetuti, è la sposa della guida spirituale della congrega, che si ritiene sia costantemente profanata dagli dei, i quali a loro volta dimorano in essa e usano la sua bocca come tramite per comunicare. Shinichi rimane attratto da questo mondo sconosciuto e decide di restare. Ma se guardiamo indietro ai suoi discorsi, capiamo che c’erano già molte affinità tra lui e i membri della setta prima ancora di conoscersi. Anche Hiroshi ritornerà su quella spiaggia.
Caratteristica del film è una profonda sensazione di alienazione e solitudine che avvolge i personaggi principali. La scena iniziale nel motel o i momenti apatici nella città di Kyoto, dove sembra non ci sia nessuno eccetto Hiroshi, Yasuko, Shinichi e Yukiko, sempre avviluppati da una fotografia grigia e smorta. Descrivono un malessere derivato dalla società nella quale vivono, teorizzano molto, sono insoddisfatti di ciò che li circonda. Di Kyoto non viene mostrata la bellezza dei suoi templi e giardini. Piuttosto viene raccontata come un luogo dal quale fuggire, che non offre niente se non una esistenza asettica, presa come esempio per rappresentare il grigiume generale delle città industrializzate. Per questo la necessità di rifugiarsi nella natura, dove i colori diventano già più accesi e vivi ma mai confortevoli.
Jissoji è dotato di un’invidiabile tecnica e di una fervida immaginazione, raggiungendo notevoli vette avanguardistiche nella conoscenza della materia cinematografica. Sostenuto da uno staff all’altezza, è riuscito a raccontare una storia utilizzando la cinepresa in modo da donare all’insieme una struttura onirica. Sono frequenti il grandangolo, un uso imponente del dolly, vorticose inquadrature in spazi ristretti, che se utilizzate da una mano creativa possono fare miracoli, a dimostrare che la sperimentazione è infinita. La fotografia in questo sogno/incubo ad occhi aperti, non cerca di ammaliarci con particolari luci colorate, ma punta su tinte scure, buie, grigie.
Il tappeto sonoro eseguito in prevalenza con il solo organo è semplicemente spettrale.
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