TIKKUN (SubITA)

Titolo originale: Tikkun
Nazionalità: Israele
Anno: 2015
Genere: Drammatico, Visionario, Spirituale
Durata: 120 min.
Regia: Avishai Sivan

Presentato a Locarno in concorso, Tikkun è un film israeliano ambientato nel mondo dei religiosi ultraortodossi. Con uno stile di ricerca, in bianco e nero sporco, il regista Avishai Sivan esplora questo ambiente, con le sue contraddizioni, seguendo la storia di un ragazzo esemplare e la sua deriva.

Lacrime di coccodrillo

Haim-Aaron è un giovane ebreo ultraortodosso. Una sera, in seguito a un periodo di digiuno autoimposto, collassa e perde conoscenza. I paramedici lo dichiarano morto, ma il padre continua con la rianimazione riuscendo, contro ogni aspettativa, a salvargli la vita. Dopo questo episodio, Haim-Aaron perde l’interesse per i suoi studi. Sente un improvviso sul piano fisico e pensa che Dio lo stia mettendo alla prova. [sinossi]

Dopo il suo film d’esordio The Wanderer, che fu presentato alla Quinzaine des réalisateurs nel 2010, il regista Avishai Sivan prosegue il suo viaggio nel mondo dei religiosi ultraortodossi, raccontando ancora di un giovane di questi, di una segnata dalla mortificazione della carne, dalla repressione di istinti che esploderanno inevitabilmente come in un vaso di Pandora. Una vita fatta di precetti che sono stati imposti e che portano alla crisi spirituale, della e del credo religiosi. Haim-Aaron è uno studente della scuola Yeshiva, che si basa sui testi sacri ebraici; nei suoi studi si è particolarmente distinto, tanto da venir considerato un “illui”, un allievo prodigio. La sua è predestinata per una carriera come rabbino di rilievo all’interno della comunità. Il ragazzo vive, con la famiglia, a Mea Shearim, l’antico quartiere ebraico di Gerusalemme. Questo stesso domicilio, per la sua vicinanza al Tempio, è considerato, dalla corrente chassidica, come un segno di per sé di santità.
Rispetto al precedente The Wanderer, in Tikkun il regista si spinge molto oltre, sia nello stile che nel mettere in scena situazioni estreme. Un bianco e nero sporco descrive un mondo claustrofobico, quello degli ebrei ultraortodossi di Gerusalemme, vetusto, fatto di edifici vecchi e fatiscenti, invasi dalle cimici e da altri insetti, con i muri scrostati. Il film inizia in un macello dove il padre di Haim-Aaron uccide una mucca, sgozzandola, secondo il rito kosher. Schizzi di sangue imbrattano il muro. Il sangue, i fluidi corporei sono nel film il segnale di una fuoriuscita, di una deriva dagli schemi preordinati, o di uno sprofondamento negli abissi. Come quando la mdp si insinua nel buco del water dove era seduto il padre, le cui crisi arrivano sempre mentre è sulla tazza. E Haim-Aaron si vede subito tagliarsi inavvertitamente il dito temperando la matita con il coltello.

Seguiamo questo ragazzo insicuro e pasticcione, tra raduni di preghiera e convention di rabbini, tra piscine e discoteche frequentate da soli ebrei ortodossi. Man mano si delinea la psicologia disturbata. Odia il suo corpo e forse anche Dio. Comincia progressivamente a impazzire. La curiosità per le donne è all’origine della sua crisi. Vede una ragazza e dopo, con un gesto ambiguo, infila il dito spingendolo dentro il pezzo di carne che tiene in frigorifero. E il collasso lo coglie proprio mentre ha un’erezione. Altro segnale di follia è quando uccide una cimice e poi mangia una torta. E ancora segno di impazzimento è quando il padre scopre che il suo libretto di preghiere è tutto cancellato, pagina per pagina, come il Jack Torrance di Shining che, invece di scrivere il romanzo, riempiva le pagine con la frase “Il mattino ha l’oro in bocca”. L’annullamento del verbo, delle sacre scritture: cosa c’è di peggio per una delle religioni del libro?

Il termine “Tikkun” ha un significato metafisico nella religione ebraica, sta a indicare la migrazione di un’anima in un processo di reincarnazione, in un percorso di redenzione. Un titolo che suona ironico per un cinema, quello di Avishai Sivan, che sprofonda nella materia organica, che è fatto di sangue, fluidi, carne e corpi. Il macello imbrattato da schizzi di sangue, l’urina del bambino che ha bagnato il letto dove dorme Haim-Aaron, la poltrona che si imbibisce (di sangue?), la prostituta obesa, che è disponibile a tutto tranne che per l’anale, del bordello in cui arriva il protagonista nella sua deriva, scelta dal cliente prima di lui, le interiora informi della mucca che tornano, esibite. E gli incubi del padre, sempre quando è sul water, che sogna di accoltellare il figlio, di farne carne da macello sacrificale e di darlo in pasto ai coccodrilli. Tutto porta alla deflagrazione finale. Haim-Aaron libera le mucche che si riversano in strada. In una nebbia irreale, che rende tutto poco nitido, provocano un incidente con dei morti. E Haim-Aaron arriverà a esplorare ginecologicamente, riprendendo con il dito il gesto fatto in precedenza con la carne, il di una ragazza. Avishai Sivan, con Tikkun, costruisce un’opera fatta di eccessi visivi, il che rappresenta il suo merito ma anche un limite, quando questi sfuggono di controllo. Il coccodrillo senziente che esce dal water, esprimendosi con didascalie, in uno dei sogni misticheggianti del padre. E la visione della vagina da vicino, della ragazza morta, con il dito usato come speculum. Il confine tra la visione estrema, disturbante ma necessaria e l’eccesso gratuito è molto sottile e sicuramente soggettivo. Bruno Dumont, con la scena simile di L’Humanité, riesce a mantenersi entro questa labile linea di demarcazione. Avishai Sivan no.

Guarda anche  THE AFTERMAN

Recensione: quinlan.it

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By Anam

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