LOST RIVER [SubITA]

Titolo originale: Lost River
Nazionalità: USA
Anno: 2014
Genere: Drammatico, Fantastico, Thriller
Durata: 105 min.
Regia: Ryan Gosling

Billy, madre single che vive con i suoi due figli, si ritrova catapultata in un mondo sinistro e fantasioso quando Bones, il figlio diciottenne, scopre una strada segreta che porta ad una città sommersa dall’acqua. I due dovranno immergersi direttamente nelle profondità del mistero, se vorranno sperare di sopravvivere.

Lost River [id., 2014] è l’eccentrico esordio alla regia del celebre attore canadese Ryan Gosling. Il film, scritto, diretto e prodotto dallo stesso Gosling, è stato presentato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, suscitando non pochi dubbi e polemiche. Si tratta, infatti, di un’opera sicuramente inaspettata da parte di un attore così in vista, nella quale confluiscono elementi eterogenei provenienti da registri diversi.1 Gosling, con Lost River, prova difatti a far incontrare idealmente fantastico e quotidiano, consegnando allo spettatore una vera e propria “avventura contemporanea” nel cuore del paese americano. Come scrive giustamente Mark Olsen, Lost River «feels like an […] intersection of the fantastical, the absurd and the romantic.»2
Centrale fin dal titolo è il luogo dove questa vicenda dai risvolti surreali si svolge: la cittadina dall’evocativo nome di “Lost River”.
Nei titoli di testa, una serie di piani fissi di abitazioni abbandonate alternati a vicende di vita quotidiana (questi ultimi, effettuati attraverso una macchina a mano che recupera certe modalità di ripresa già viste nel recente di Terrence Malick) ci introducono ai due veri protagonisti del film: Billie (Christina Hendricks), una solitaria madre tutrice di due figli, e la città di Lost River, un luogo in fase di de-urbanizzazione.
La rappresentazione del contesto sociale e urbano di Lost River è preciso. Il regista afferma infatti che era nelle sue intenzioni creare un mondo «alieno ma riconoscibile come il nostro» non ancora post-apocalittico quanto, piuttosto, «pre-apocalittico», prossimo a una fine imminente.3

Lost River è dunque un luogo in via di disfacimento; una città-fantasma composta per lo più da palazzi abbandonati e case sventrate prossime alla demolizione. Una “terra di nessuno” dove gang di ragazzi e teppisti improvvisati si contendono le ultime risorse di rame ricavate dagli scheletri di costruzioni solitarie. Al contempo, le case ancora abitate vengono abbattute: chi non può più pagare l’affitto, viene sfrattato. È ciò accade a Billie e alla sua famiglia, intimati senza tanti convenevoli a lasciare il proprio domicilio – sul muro della loro casa viene impressa la lettera “D”, segno distintivo delle abitazioni prossime alla demolizione. Determinata a non rinunciare alla propria casa, la donna si reca alla banca per ottenere un prestito, ma le viene negato. Riceve però, sottobanco, la raccomandazione per un lavoro in un misterioso locale notturno nel cuore di Lost River. Scopriremo, poco più avanti, che in questo suggestivo locale si svolgono spettacoli di carattere grandguignolesco, diretti dall’avvenente Cat interpretata da Eva Mendes – attrice decisamente a suo agio in cammei “d’autore”: pensiamo a Holy Motors [id., 2012] di Leos Carax. Ma nel varcare questa ipotetica “soglia”, Billie scopre un mondo che, forse, non aveva mai immaginato.
Lost River, per utilizzare la terminologia di Michel Chion4, si può considerare una sorta di lynchtown, ovvero uno di quei luoghi doppi, noti al pubblico di David Lynch, in cui ogni cosa è in grado di partorire il proprio riflesso oscuro. Ma con una sottile variante. La città ideata da Gosling, a differenza di una Twin Peaks – forse la più celebre delle varie lynchtowns –, non dispone di alcuna superficie rassicurante: piuttosto, a Lost River, si può andare solo più a fondo nell’incubo.
La desertica cittadina, inospitale e violenta di giorno, di notte si fa incredibilmente popolosa – soprattutto in quei luoghi «di perversione» dove gli abitanti possono mostrare il loro vero (?) volto. Il film, per mezzo di precise scelte scenografiche, di costumi e di décor, lavora proprio sull’ambiguità scaturita da questi elementi di carattere profilmico.
Ma Lost River è una città “doppia” anche perché, topograficamente, ne esiste un’altra, sommersa. La scopre per caso Bones (Iain De Caestecker), il figlio più grande di Billie, durante la sua fuga dal gruppo di teppisti capitanato da Bully (Matt Smith). Dei pali della luce che fuoriescono misteriosamente dal lago catturano l’attenzione del ragazzo. Chiedendo informazioni in giro, Bones scopre che si tratta della vecchia Lost River sepolta ormai da anni sotto l’acqua di un bacino idrico artificiale. Per gli abitanti del posto si tratta di un luogo mitologico, dai connotati magici. Rat (Saoirse Ronan), la ragazza di Bones, gli rivela infatti che, «per spezzare l’incantesimo malvagio che aleggia su Lost River, bisogna riportare in superficie un oggetto della vecchia città sommersa». Sarà questa la missione del ragazzo.

Nel finale del film, un montaggio alternato ci mostrerà una “doppia liberazione”: quella di Billie, che uccide il proprio “benefattore” durante un peep-show, e di Bones, che si immerge nelle acque del bacino idrico per estrarre un oggetto sommerso, e liberare così Lost River dall’«incantesimo».
Come anticipato, è nei confronti del di David Lynch che l’opera prima di Gosling si rapporta maggiormente. Come non pensare, ad esempio, in riferimento ai titoli di testa commentati da una musica anni Cinquanta/Sessanta a quelli di Velluto blu [Blue Velvet, 1986]. Ma non solo. Il film di Gosling è popolato da tutta una serie di personaggi, bizzarri ed eccessivi, che volentieri travalicano il confine della normalità per sfociare nell’assurdo: gli stessi che abitano molti celebri mondi lynchani (pensiamo, ad esempio, al Bobby Perù di Cuore selvaggio [Wild At Heart, 1990]).
Bully e Face, i due teppisti di Lost River perennemente alla ricerca di Bones, sono due personaggi sopra le righe, ambigui e inquietanti – e, nel caso di Face, addirittura sfigurati (come lo è Bobby Peru). Sono in qualche modo dei figli illegittimi del Frank Booth di Velluto blu: isterici, sadici (pensiamo alla terribile sequenza in cui Bully uccide il topo di Rat), nonché sessualmente ambigui. Ma Gosling paga il suo debito anche con Strade perdute [1997], il cui titolo originale, Lost Highway, potrebbe aver ispirato lo stesso Lost River. Del capolavoro di Lynch, Gosling recupera diversi elementi iconografici. Pensiamo, ad esempio, all’ossessione per il fuoco5; oppure alla folle corsa in auto sull’autostrada immersa nella notte, ripresa da Gosling in maniera similare. Dunque, in questa sua ricerca formale, il regista sente il bisogno di confrontarsi con quel che più lo affascina e che lo ossessiona.
Fondamentale per la configurazione formale dell’opera di Gosling si rivela essere il contributo del belga Benoît Debie. Il celebre direttore della fotografia di Gaspar Noé (impossibile non citare il suo titanico lavoro per Enter the Void [id., 2009]) e Harmony Korine (con il seminale Spring Breakers – Una vacanza da sballo [Spring Breakers, 2012]), in questa sua prima collaborazione con Gosling, dà vita ad un vero e proprio “manto visivo” che si dimostra essere uno dei nuclei portanti dell’opera. I colori accesi che avevano caratterizzato le due fondamentali opere sopra citate li possiamo ritrovare nel film di Gosling: un espediente necessario per calare il film in una atmosfera onirica e surreale. Afferma lo stesso Debie a riguardo: «Il film inizia con toni molto “sociali” e realistici, con la storia di una madre che vive in una città economicamente devastata (Detroit) e che sopravvive a malapena facendo un lavoretto dopo l’altro per pagare le bollette e crescere i propri figli… ma poi, a poco a poco, il film si evolve attraverso immaginari universi paralleli che perfino io definirei “fantascientifici”… per me è stata una grande esperienza trasmettere [tutto ciò] sullo schermo..»6

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In particolare, è nella caratterizzazione luministica del locale gore che Debie ha l’occasione per creare gli effetti cromatici più interessanti, non solo sul palco dove si esibiscono Cat e Billie, ma soprattutto nelle stanze sul retro, dove i clienti possono assistere a dei bizzarri peep-show. La strutturazione del luogo è emblematica: un lungo corridoio inondato da una luce violacea – curiosamente, lo stesso colore del vestito indossato da Billie durante il suo primo incontro in banca –, su cui si affacciano diverse stanze al cui interno è disposto un bizzarro involucro dalla sagoma umana chiamato shell (guscio). Si tratta di una sorta di esoscheletro trasparente dove le donne sono protette dai clienti. La particolare forma di questo guscio distorce i loro lineamenti. È difatti ciò che accade a Billie nel finale del film, dove il suo volto, contratto dal terrore, assume i connotati mostruosi di un personaggio che sembra uscire dal mondo defigurato di INLAND EMPIRE – L’impero della mente [INLAND EMPIRE, 2006]7.
Questo uso dei colori così accesi, che tendono a una rottura di significazione nei confronti di un semplice valore cromatico, è sicuramente debitore del cinema “eccessivo” di Mario Bava e Dario Argento8 altri due nomi che il regista cita fra le influenze del film (e che idealmente omaggia con la presenza, nel cast, di una delle dive dell’horror italiano, Barbara Steele, interprete del capolavoro baviano La maschera del demonio [1960]). Dunque, una funzione figurale del colore che la fotografia di Debie porta ad un grado di assoluta salienza.
Ma Lost River è soprattutto un film di performances. I personaggi sembrano costantemente mossi da una volontà di esibirsi (per un pubblico, o semplicemente per l’occhio dello spettatore). Basti pensare all’utilizzo dei brani musicali diegetici. Per ben due volte, nel corso del film, viene cantata una canzone. Rat intona Tell Me, il brano che tornerà anche nei titoli di coda, illuminata dalle luci al neon di Debie. Più avanti assistiamo ad una concitata performance di Dave che esegue Cool Water, brano molto vicino al registro musicale di Nick Cave.

Ma non solo. Come già anticipato, il film è interpuntato dagli spettacoli gore del misterioso locale. Durante la propria esibizione, Billie si “toglie” la faccia dopo averla incisa con un bisturi: si tratta di un rituale, di una cerimonia che evidenzia lo sdoppiamento del personaggio. Uno sdoppiamento da intendersi non tanto in riferimento alla doppia vita condotta dalla donna (madre/prostituta), quanto allo scollamento tra il sé e la propria immagine. Una volontà di concedersi, completamente, allo sguardo (degli/dello spettatori/e).
Ma il momento più significativo in cui film denuncia questa teorizzazione della performance è probabilmente nel pre-finale, ovvero quando Dave si mette a ballare per Billie, rinchiusa dentro allo shell. La macchina da presa, statica, passa da campi totali a primi piani, dinamizzando e stilizzando a dismisura lo spazio. Dave balla in questo suo a solo, mentre i volti dei due personaggi si sfigurano poco alla volta. I loro corpi diventano, letteralmente, figure nello spazio che la tensione formale della sequenza riduce a immagini-al-di-fuori-del-corpo. O forse sarebbe più corretto dire dopo-il-corpo.
La fotografia di Debie e la messa in scena di Gosling si fondono, così, per creare un universo spaesante, fatto di soggettive e campi lunghi, di forzature dell’immagine e cromatismi folli. Uno spazio “geometrico”, ma al tempo stesso difforme. E dove lo scontro (o l’incontro) tra corpo dell’attore e corpo cinematografico è definitivo.
Come scrive Jason Bailey: «L’eccezionale fotografia di Benoît Debie crea stati d’animo mutevoli in un attimo, passando da una bellezza irregolare all’inferno urbano, che vengono combinati assieme a un immaginario sempre più surreale per dare all’immagine una qualità spettrale, da incubo.» Al contempo, «Gosling utilizza un audace senso ellittico di messa in scena, con il dialogo spesso rimpiazzato da stralci di conversazioni già iniziate, riempiendo i bordi della sua storia con colorati, memorabili personaggi (molti di loro, a quanto pare, non-attori che interpretano variazioni su loro stessi) e che aggiungono un po’ di sapore in più alla narrazione nuda e cruda.»9
È dunque un film di vuoti e di pieni, Lost River. Dove, forse, l’estrema stilizzazione (il pieno) sembra voler nascondere un vuoto (di senso?). Un atteggiamento non troppo lontano da quello di Refn in Solo Dio perdona [Only God Forgive, 2013], film interpretato dallo stesso Gosling. Un’altra opera dove la costruzione, ricercatissima, della messa in scena equivale alla sua distruzione, al suo sfaldamento, e «alla sua sconfitta» (Lorenzo Baldassari). Ma Gosling fa un passo più in là: ché lo sfaldamento di Lost River non investe più solo il film, ma il corpo stesso del personaggio, i suoi connotati, il suo volto.
Verso la de-figurazione.

1. . Cfr. con N. Chen, What insipired Ryan Gosling’s Lost River? http://www.dazeddigital.com/artsandculture/article/24373/1/what-inspired-ryan-gosling-s-lost-river
2. M. Olsen, Lost River, http://www.latimes.com/entertainment/movies/la-et-mn-lost-river-review-20150410-story.html
3. «The idea was that by panning down onto this stage that it would give this sense of landing on almost like an alien planet that we come to realize is our own. It would feel postapocalyptic, but at a certain point you would realize that it’s almost pre-apocalyptic because it’s still a functioning place that’s dying on the vine.», M. Murphy, ‘Lost River’: Ryan Gosling narrates a scene, http://www.nytimes.com/2015/04/17/movies/lost-river-with-movie-trailer-ryan-gosling-narrates-a-scene.html?_r=0
4. Cf. M. Chion, David Lynch, Torino, Lindau, 2000.
5. Nei titoli di testa, il nome del regista compare proprio su di un’immagine infiammata, decisamente lynchana.

Recensione: specchioscuro.it

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By Anam

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