
Titolo originale: Lokis. Rekopis profesora Wittembacha
Paese di produzione: Polonia
Anno: 1970
Durata: 100 minuti
Genere: Horror, Drammatico, Esoterico
Regia: Janusz Majewski
Sinossi:
Un giovane botanico e studioso di folklore, il professor Witten, arriva in una tenuta isolata della Lituania per documentare antiche tradizioni locali. Qui conosce il conte Michał Szemiot, un aristocratico tormentato da un passato oscuro: sua madre, anni prima, fu trovata sconvolta dopo essere stata attaccata da un orso durante la gravidanza, e da allora la leggenda vuole che il figlio possa essere “mezzo bestia”. Mentre il professor Witten cerca di comprendere il mistero che circonda la famiglia, la natura selvaggia, i rituali pagani e le ombre del luogo sembrano insinuare che la verità non sia metafora, ma una trasformazione reale in attesa di compiersi.
Recensione:
“Lokis” è un film che sa respirare. Non corre, non grida, non si concede al sensazionalismo: si insinua come una leggenda sussurrata nelle case di legno, tra il profumo del muschio e lo scricchiolio dei pavimenti. Majewski prende il mito del “were-bear”, il licantropo ursino del folklore baltico, e lo trasforma in un raffinato dramma da camera dove l’orrore è un’eco, una vibrazione che cresce nella mente dello spettatore più che sullo schermo.
La fotografia è un incantesimo freddo. Gli interni sono impregnati di una luce lattiginosa, morbida ma inquieta, come se ogni stanza fosse prigioniera del mattino prima dell’alba. I paesaggi esterni — boschi, fiumi, radure — sembrano immobili, incantati, sospesi in un tempo fuori dal tempo. È una natura che non consola: osserva. Valuta. Sembra chiedersi quale parte dell’essere umano meriti davvero di stare in piedi.
Il fulcro del film è la figura del conte Szemiot. Una presenza elegante, vulnerabile, incrinata da una tensione muta: l’idea di essere abitato da una bestia. Il merito di Majewski è quello di non ridurre questo tormento a un cliché mostruoso: la sua condizione è trattata come un’ombra psicologica, un destino ereditato più che una maledizione soprannaturale. Ma allo stesso tempo il film non abbandona mai l’ambiguità: ogni gesto, ogni sguardo, ogni improvvisa rigidità del conte fa pensare che la leggenda possa davvero essere sangue, non solo simbolo.
Il professor Witten, osservatore esterno, è il tramite perfetto: incarna la razionalità che lentamente si incrina, l’intellettuale che arriva con l’idea di catalogare e spiegare e finisce per essere risucchiato da ciò che sfugge a ogni metodo. Mentre tutto il mondo della tenuta — servitù, contadini, parenti, sacerdoti — si muove in un codice di credenze arcaiche, Witten si trova paralizzato in una danza rituale che non capisce. E il film si diverte a ribaltare le sue certezze, come se dicesse: “Non si può studiare un mito mentre lo si sta vivendo.”
“Lokis” è pieno di piccoli segnali: rumori nel buio, porte lasciate socchiuse, animali agitati, improvvise impennate emotive del protagonista. Non c’è mai un effetto speciale, mai un’esplosione visiva. L’orrore è un insinuarsi. È l’idea che il mondo naturale non sia separato da noi, ma abbia un ruolo attivo nel plasmarci. La bestia non è un’intrusione: è un possibile esito dell’anima umana.
Il matrimonio — evento cardine della seconda parte — è filmato come un rito di passaggio, un transito simbolico in cui l’identità del conte sembra scricchiolare sotto la pressione del destino. La festa è luminosa, ma qualcosa nel ritmo, negli sguardi, nei movimenti, lascia intendere che la gioia è solo una vernice sottile su un abisso che si sta spalancando. Qui il film diventa quasi liturgico, come se stesse celebrando una messa pagana sotto forma di cerimonia cristiana.
E poi arriva il finale. Un’esplosione di destino, eliminazione di ogni metafora, rottura definitiva dei margini. È il momento in cui il film abbandona la sua compostezza e mostra, finalmente, la tragedia al centro della leggenda. Ma anche in questa crudezza, Majewski mantiene un’eleganza quasi sacra: non c’è spettacolo, non c’è compiacimento, solo una verità antica che si compie.
“Lokis” è un’opera di rara raffinatezza gotica. È un film sull’eredità, sul timore di ciò che portiamo dentro senza averlo scelto; un film sulla collisione tra ragione e mito; un film su quanto l’umano sia fragile quando è costretto a specchiarsi nella natura che ha provato a dominare. Majewski accompagna lo spettatore in un viaggio lento, magnetico, quasi ipnotico, fino al punto in cui folklore e tragedia diventano una cosa sola.
