LE ARMONIE DI WERCKMEISTER [SubITA]

Titolo originale: Werckmeister Hármoniák
Nazionalità: Francia, Germania, Italia, Ungheria
Anno: 2000
Genere: Drammatico, Visionario
Durata: 145 min.
Regia: Béla Tarr

Un villaggio di provincia, una teoria musicale che richiama un’idea di purezza e di assolute, un carrozzone dentro il quale si nascondono un minuscolo “principe del Male” e un mostruoso cetaceo…

Il cinema di Béla Tarr è un cinema che sconfina: sconfina nello e sconfina nel tempo, eppure rimane immobile, fedele a se stesso, bianco e nero, come un tango senza musica, onesto. È un cinema del dolore, un dolore che trema, si spegne e rinnova una commozione ancestrale che ci ricorda chi siamo. Chi siamo? Siamo noi stessi, ma non sempre ci troviamo e ci vuole una forza che solo il dolore possiede per ritrovarci finalmente umani. Sta qui la difficoltà di cogliere il cinema di Tarr, che è sostanzialmente sforzo e onestà: sforzo perché dovremmo abbattere la paura che c’impedisce di guardare al di là del velo di Maya, onestà perché bisogna essere molto, troppo onesti con se stessi per smetterla di avere paura e arrivare a considerare il dolore che ci circonda, la cui ignoranza fondamentalmente ci connota inchiodando le nostre esistenze a se stesse, rendendoci stupidi, bigotti, solipsisti, rancorosi, gretti, innocui. Così, siamo portati a formulare dottrine soteriologiche quali, per esempio, il marxismo o il cristianesimo, le quali non fanno altro che aggiungere chiodi alla bara dell’esistenza. Basta leggere Kierkegaard ( «Se l’ non avesse una coscienza eterna, se al fondo d’ogni cosa ci fosse solamente una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa, il grande e il futile, nel turbine d’oscure passioni; se il senza fondo, che il nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione?»), senza però lasciarsi ingannare e rifugiarsi nella via più facile, quella che lui scelse, ovvero la fede in Cristo, ma prendere atto della disperazione che è al fondo d’ogni cosa e accettarla anche per noi stessi. Perché, cosa ne capisce, l’uomo, dell’immortalità? E dunque c’è questo villaggio sperso nella pustza ungherese, dove, all’approssimarsi di un’eclissi solare, giunge un circo costituito da due sole attrazioni: un principe e una balena. Il villaggio è sull’orlo del collasso, e alla fine la dialettica del principe avrà la meglio sulle menti dei popolani, che raderanno al suolo tutto quanto, ma non è questo che importa, perché «ogni foglia – come scriveva Ginsberg – è caduta in anticipo», ed è l’eclissi il motivo di tutto quanto.

Sì, perché è in «questo tramonto oscuro e inconcepibile» che l’ versa, tiranneggiato dalla propria razionalità, o meglio nella credenza di possedere una razionalità che in qualche modo si è dato: cosa succede, nel buio? E se il cielo sprofondasse, e se la terra smettesse d’esistere, e se d’un tratto, tutti quanti, ci rendessimo conto che…? Viviamo in un’eclissi perenne, angosciati del futuro non meno che del presente, e sarà quando l’eclissi si rivelerà un’eclissi che ci sarà una commozione nuova, un’umanità nuova e finalmente rinnoveremo l’esistenza per quel che è. Ma ci sono bambine nell’oscurità, e «ormai non c’è nulla di sacro»: ed è qui s’innesta la dialettica del principe, che dice. Che dice: «Ciò che costruiscono e ciò che costruiranno, ciò che fanno e ciò che faranno è solo inganno e menzogna. Ciò che pensano e ciò che penseranno è ridicolo. Pensano perché hanno paura. E chi ha paura non sa nulla». È un messaggio misantropo, ma la dialettica l’impone, questa misantropia, per attualizzare l’umanità: che ancora dorme, perché mentre scrivo tutta questa cianfrusaglia di allocuzioni, parole, virgole eccetera, qualcuno sta morendo da qualche parte, qualcun’altro fa l’amore e qualcun’altra ancora scopre una gravidanza non voluta. Perché le persone dicono e fanno cose tristi? Perché quest’affanno di cultura, sentimenti, vestiti, ricordi, bicchieri? Le armonie di Werckmeister. Ora più che mai, dopo che Foucault ha dimostrato che «l’individuo è senza dubbio l’atomo fittizio di una rappresentazione “ideologica” della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che si chiama “la disciplina”. Bisogna ammettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: “esclude”, “reprime”, “respinge”, “astrae”, “maschera”, “nasconde”, “censura”. In effetti il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione» è necessario partorire la nietzschiana stella danzante, ed è questo che vuole dirci il finale di queste armonie.

Guarda anche  TEZUKA'S BARBARA [SubITA]

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