THEMROC

Titolo originale: Themroc
Nazionalità: Francia
Anno: 1973
Genere: Commedia, Grottesco, Visionario
Durata: 93 min.
Regia: Claude Faraldo

Imbianchino dai ritmi di vita schiacciati dalla società di massa, Themroc subisce un rimprovero sul posto di lavoro e, in a una viscerale, regredisce a una sorta di stadio primitivo. Torna a casa, si mura in una stanza, ne demolisce la parete esterna ricreando una specie di caverna e dà il via a una rivolta contagiosa che pian piano coinvolge sempre più persone. Le guardie cercano di intervenire. Di tutta risposta Themroc e la sua nuova comunità reagiscono mangiandosele arrosto…

Un film come Il mangiaguardie (bislacco titolo italiano per l’originale Themroc) mette chi vede a confronto innanzitutto con la distanza. Riscoprire un tempo e uno spazio in cui un’opera siffatta era possibile, concepibile, realizzabile e mostrabile. Spazi di cinema puramente e totalmente anarchico, che poteva trovare un proprio posto nell’orizzonte produttivo, essere distribuito, visto, magari passando attraverso qualche noia di censura, ma comunque frutto di un tentativo, invece di arrendersi al quieto vivere dell’autolimitazione.
Provare a farsi sentire e vedere, senza farsi intimidire dalle strettoie produttive. A collaborare col regista Claude Faraldo, figura interessante e fortemente dimenticata, ritroviamo un nutrito gruppo di volti francesi che lungo gli anni Settanta vivacizzeranno e rinnoveranno il cinema d’Oltralpe: Béatrice Romand, Miou-Miou, Coluche, il compianto Patrick Dewaere (si suicidò a 35 anni), con l’aggiunta delle italiane Marilù Tolo e Francesca Romana Coluzzi. I francesi per buona parte provenienti dall’esperienza del “Cafè de la Gare” e protagonisti di una lunga e florida stagione di cinema francese, le italiane volti piuttosto consolidati dell’industria. Al centro, la figura fondamentale di Michel Piccoli, che mai si è tirato indietro di fronte alla sfida del cinema più spericolato e disallineato.
Tutti insieme chiamati a sferrare un colpo deciso e trionfante alle consuetudini del cinema, convocati a trasformare un film in occasione di provocazione e contestazione nei confronti della cultura del tempo.

Cinema inteso come attore di dinamiche socio-culturali, protagonista di un dibattito a largo raggio, impegnato nel senso più stretto del termine. Sotto la furia gioiosamente distruttiva de Il mangiaguardie ci finisce tutto il sistema occidentale, ivi comprese le sue consolidate istituzioni. Finisce a pezzi lo stesso linguaggio umano, rifiutato e riconfigurato secondo espressioni preverbali. Per buona parte Il mangiaguardie non prevede dialoghi, e laddove i personaggi ricorrono alla comunicazione, si affidano a grugniti e parole inventate.
Da un lato, Faraldo riqualifica la potenza dell’immagine in movimento e le origini del cinema (specie nella prima parte, i ritmi ricordano quelli della comica muta), come a dire che al cinema della parola codificata non vi è alcuna necessità; dall’altro, la lingua segue la disintegrazione di un intero sistema culturale, ricondotto ai suoi primordi, all’uomo della caverna. Restano le intenzioni, espresse tramite suoni disarticolati e una mimica accentuata, già di per sé portatrice di significato prima della parola.

Il film mette al centro le vicende di un imbianchino, Themroc, che subisce un ingiusto rimprovero sul lavoro per aver pizzicato una tresca tra direttore e segretaria. In reazione al rimprovero, Themroc dà in escandescenze e di fatto regredisce allo stadio primitivo. Torna a casa, si mura in una stanza e demolisce la parete esterna, ricreando un contesto di caverna in cui si rifugia con la sorella, per la quale nutre attrazioni incestuose. Pian piano la di Themroc coinvolge anche la famiglia dei vicini di casa (in particolare l’energica moglie) e si allarga a macchia d’olio, mentre le autorità cercano inutilmente di metterci una pezza. Le guardie convocate sotto il condominio finiscono per trasformarsi in cibo di cui nutrirsi; la nuova comunità radunatasi intorno a Themroc inizia a praticare il cannibalismo, mentre il sesso si fa sempre più libero in tutte le sue declinazioni. L’intero sistema si sgretola sotto i colpi di un neo-primitivismo, che a poco a poco coinvolge tutta la città, forse il mondo intero.

Il mangiaguardie esordisce con i toni del cinéma-vérité, affidandosi al costante utilizzo della macchina a mano e pedinando il protagonista nel suo percorso verso il posto di lavoro (i primi 20 minuti sono semplicemente folgoranti). Ma di fatto Faraldo aderisce a un “falso cinéma-vérité” fortemente connotato verso il surreale e il grottesco, con piena adesione a modelli di primitivismo comico. Rapidamente presentato come esemplare dell’uomo-massa, Themroc si oppone a tutto ciò che è formalizzato, ivi comprese le proteste sindacali brevemente riassunte in scoordinati borbottii tra i lavoratori. Una a raggio totale che si abbatte contro tutti i tabù di un universo morale, contro tutto ciò che fa parte di un meccanismo a ingranaggi in cui tutto si integra con tutto, e la cui unica vittima risulta l’uomo omologato. Un vero e proprio ritorno alla pre-cultura, dove sono accolti il cannibalismo, l’incesto, la pre-lingua, il concetto di orda.
Vi è molto di programmatico, ovviamente, visto che nell’elenco di tabù da far esplodere non manca proprio nulla, dai ritmi di della vita moderna alla famiglia, allo scontro con le guardie che spesso ricorda le cadenze divertite dei Keystone Cops.
Lavorando finemente sull’espressività del sonoro (un tappeto di rumori, suoni e suggestioni), Faraldo rende estremamente fluida e fruibile un’opera così radicale e spericolata. Che se da un lato segue con partecipe entusiasmo l’esplosione culturale messa in atto da Themroc, dall’altro sembra anche registrare una vaga inquietudine nei confronti di un panorama, sul finale, in via di creare nuove forme d’omologazione. Accanto al grido gioiosamente anarchico, Faraldo (forse) insinua anche il dubbio di nuovi fascismi, pronti a deflagrare sotto la pressione insostenibile operata dai processi produttivi sull’uomo. La società di barbarizza l’essere umano al punto tale da ricondurlo a una dimensione antisociale dove la stessa assume contorni antisociali. Ci si ribella insieme, ma prima della ragione, restando vicini solo per comuni necessità. E il contagio di tale ribellione è a sua volta globale e omologante, un unico ululato da un palazzone all’altro, in tutta la città, forse nel mondo intero. Quegli edifici alienanti che si susseguono sul finale, piena espressione di una razionalità egemonica calata dall’alto, forse cullano gemiti squassanti di rivolta dagli esiti altrettanto egemonici. Nessuna ragione, solo un grido di pancia (a un cannibale niente più si addice di questo) alla riscoperta totale dei bisogni primari. Un’esplosione di gioia e libertà, e insieme un grido d’allarme.

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Apologo del tutto autoconsapevole e dichiaratamente “engagé”, Il mangiaguardie si delinea realmente come una visione inconsueta, che ci parla di tempi lontani e idee lontane. Un’idea di cinema coraggioso, che non si autoargina, che va allo scontro con le regole dell’industria. Non le teme, le sfida senza preoccuparsi di vincere o perdere. Qualcosa di decisamente inconcepibile (tranne rare eccezioni) per il cinema di oggi. Forse perché in questi quarant’anni la società di massa ha sostanzialmente vinto, e tutti noi stiamo nelle nostre caverne a ululare. A emettere suoni indistinti. Suoni tutti uguali.

Recensione: quinlan.it

 

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By Anam

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