GIROTONDO, GIRO ATTORNO AL MONDO

Titolo originale: Girotondo, giro attorno al mondo
Paese di produzione: Italia
Anno: 1998
Durata: 76 min.
Genere: Drammatico
Regia:

Il protagonista è Angelo, un ragazzo cresciuto con una donna nomade e il suo migliore amico tossicodipendente. Un giorno l’amico muore per overdose e Angelo sprofonda nello sconforto da cui uscirà solo grazie all’aiuto della prostituta Serena.

Finalmente l’esordio di ha trovato una doverosa distribuzione in DVD. Girotondo, giro attorno al mondo è un grido di liberazione e di follia, un viaggio palpitante nell’universo dei dropout, raccontato con disperazione e lucidità, tra aperture visionarie e un bianco e nero caldo e sporco che conferisce alle una qualità scultorea e una luce abbagliante e poetica.

Finalista al Premio Solinas nel 1995, girato nel 1998 e uscito, in pochissime sale e per pochissimi giorni, nel 1999 su iniziativa della Pablo di Gianluca Arcopinto. Il lungometraggio d’esordio di è un grido di liberazione e di follia, un viaggio palpitante nell’universo dei dropout, raccontato con disperazione e lucidità, tra aperture visionarie e un bianco e nero caldo e sporco che conferisce alle una qualità scultorea e una luce abbagliante e poetica. Oggetto totalmente anomalo nel panorama italiano, ieri come oggi, Girotondo, giro attorno al mondo è un film che non ti aspetti; che cattura e trascina nel suo lirismo emotivo e nella sua vis irrazionale; e che ti arriva come una scheggia impazzita, ma emblematica e forte, delle infinite possibilità del fare cinema in modo creativo e personale. Manuli usa la macchina da presa come una penna, realizzando a fine millennio la celebre utopia di Astruc e Zavattini; raccontando impressioni, situazioni, personaggi, emozioni, colori, suoni, paesaggi, bloccati nei loro istanti di verità più puri.
Visto dal cinema italiano, Manuli sembra un alieno, uno che non ha nulla a che fare con la miopia dello sguardo o l’ombelicalismo delle storie a cui siamo abituati, né con la frenesia delle di tanto cinema fintogiovane di oggi. Il suo linguaggio è febbrile, quasi mistico, vivo e pulsante, come le struggenti, grezze timbriche dei CCCP miscelate nella colonna sonora con sapiente e rispettoso incastro (Curami, Allarme). L’andamento stesso scuote, alternando accelerazioni improvvise e flash ottici a lunghi piani sequenza, fulgidi e densissimi di vita, dove gli attori sono lasciati liberi di agire e “darsi”, toccando picchi altissimi come raramente si è visto fare dalle nostre parti. Non è un caso che lo stesso regista, davanti oltre che dietro alla macchina da presa, venga dall’esperienza dell’Actor’s Studio di New York, e abbia collaborato in passato con gente del calibro di Al Pacino, Milos Forman e Mike Newell.

Luciano Curreli è Angelo, il protagonista, un personaggio bellissimo, fragile, aperto, che lascia la droga dopo aver perso il suo migliore amico e aver incontrato la prostituta Serena (Sarah Boberg), straordinaria nella sua bellezza di angelo ferito, luminosa e tagliente. Due attori, due volti capaci di bucare lo schermo e conficcarsi dritti nell’occhio della cinepresa e di riflesso nel cuore e nella testa di chi guarda.
Manuli racconta un mondo sfatto e ai margini, intriso di morte, dolore, vita, gioia, amore, droga, favola, comprensione, umanità, senza la benché minima ombra di retorica, affidandosi al linguaggio di una cinepresa che aderisce alla naturale fotogenia degli attori. Senza compiacimento, ma solo spinto da un’urgenza e una necessità palpabili. Così, lontano dalle edulcorazioni della fiction, tutto sembra vero, sentito, sofferto, vissuto. E in queste sue “aperture”, in queste sue fughe spericolate a cavallo di un racconto che procede per sussulti, squarci e passaggi di natura biologica più che logica, c’è tutto il film preso nel suo “farsi”, il film come lavoro di set, di sceneggiatura scritta e rimaneggiata direttamente sul posto, al momento delle riprese, resa elastica e dirompente dalle dinamiche degli attori, dalla cinepresa a spalla che li segue in ascolto, dai toni e dalle facce giuste, dai luoghi reali, dall’improvvisazione, in qualche modo, che fa pensare ai momenti più liberi di un Cassavetes.

È inidentificabile e apolide, l’operazione di Manuli. Indipendente, certamente. Ma anche fuori dal tempo, allucinata, estranea al caos contemporaneo, capace di stare sul crine di un cinema che rilegge, con naturalezza e per pura necessità di espressione, le libere e fiammeggianti degli anni ’60 e ’70, quelle delle nouvelles vagues impetuose e travolgenti (l’uso dello zoom a mano, furioso e selvaggio; un certo montaggio sincopato; la macchina a spalla a seguire le camminate degli attori…), ma anche quelle affacciate sul baratro di senso postmoderno della New Wave del cinema francese anni ’80, dove le storie avevano meno importanza dei personaggi (il rapporto uomo-donna tra i due protagonisti fa pensare al primissimo Luc Besson, mentre la sequenza nel caffè, con i suoi ospiti bizzarri, è un misto tra Godard e Beineix). E ancora i brevi e fulminanti quadri in cui i personaggi si rivolgono direttamente alla macchina da presa, o il mondo del circo e delle comunità nomadi, che fanno venire in mente il primo Kusturica.
La polifonia linguistica è un altro punto di forza del film, girato per un buon 70% da attori francesi in francese e con alcune battute di dialogo in inglese. L’italiano diventa allora una lingua tra le tante, e neanche la più importante; e tutto questo, inevitabilmente, porta al film un tangibilissimo quid di verità in più.

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Peccato. Tanta maturità di sguardo, tanta freschezza di idee, tanto lirismo nella regia, fanno solo rimpiangere il fatto che un film come Girotondo, giro attorno al mondo, pur avendo circolato all’epoca in qualche festival di nicchia, portando giustamente a casa i suoi premi (miglior regia e colonna sonora a Sulmona, miglior film indipendente italiano ad Arezzo), non sia poi finito a rappresentare il cinema italiano ovunque, come dimostrazione di un talento di spessore che può tranquillamente competere sul piano internazionale in qualunque festival d’Arte cinematografica degno di questo nome.
Trent’anni fa Manuli sarebbe diventato immediatamente un Maestro, un Genio. E se oggi non ha più senso parlare in questi termini, è impossibile non disprezzare un sistema produttivo e distributivo – e prima ancora culturale e politico – che non valorizzi i nostri unici veri registi su cui adesso varrebbe la pena puntare. Certo, il no-budget serve sicuramente alla causa, e il non dover rendere conto a nessuno ha sicuramente giovato alla poetica di Manuli, permettendogli una certa libertà nel costruire le sequenze a suo modo, in accordo col proprio mood (è quasi paradossale che l’indipendenza produca per natura i risultati migliori, svincolata com’è da vincoli economici forti e dall’obbligo del rientro delle spese…).

Finalmente il film di ha trovato una doverosa distribuzione in DVD, e il regista ha portato a termine un’opera seconda di fiction, Beket, dopo aver deciso di percorre altre strade sicuramente più autonome, come in Inauditi-Inuit (2005), girato nei Territori del Nord, in Canada, al confine col Circolo Polare Artico, e concepito come un viaggio antropologico compiuto in prima persona da lui e dal suo aiuto-regista francese, Jérôme Duranteu, attore anche in Girotondo, giro attorno al mondo.
È dunque impossibile proseguire oggi in Italia con un cinema originale, forte, non compromissorio, capace di arrivare al grande pubblico? Siamo davvero condannati a ripeterci storie già sentite e ad anestetizzare il nostro linguaggio con pere di campi/controcampi e découpage televisivi? La verità, ci ricorda Manuli, è nella sperimentazione di sé, nella libertà espressiva e nel rispetto degli istanti di verità che prepotentemente, inseguendo la strada, saltano alla luce.

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By Anam

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