FISH STORY [SubITA]

Titolo originale: Fisshu sutôrî
Paese di produzione: Giappone
Anno: 2009
Durata: 112 min.
Genere: Avventura, Fantascienza
Regia: Yoshihiro Nakamura

Il capolavoro indiscusso di Yoshihiro Nakamura, Fish Story, presentato tra gli applausi all’edizione 2009 del Far East Film Festival. Un’ tra il delirante, lo -fi e il post-punk, senza compromessi.

Se il fallimento fosse un pesce
Nel 2012 un’enorme cometa sta per schiantarsi al largo delle coste del Giappone. Nelle previsioni l’impatto dovrebbe provocare uno tsunami tale da sommergere l’intero paese. Gli abitanti di Tokyo sono tutti quanti fuggiti in cerca di riparo sulle montagne più alte. Un misterioso signore sulla sedia a rotelle, vagando per la città deserta, si ferma in un piccolo negozio di dischi dove il proprietario e un cliente discutono spensieratamente di musica. I due non sembrano per nulla preoccupati dall’arrivo della cometa, convinti che sarà la musica o qualche supereroe a sistemare le cose… [sinossi]

Fish Story è una canzone della band nipponica proto-punk Gekirin, incisa nel 1975. Ma Fish Story è anche il titolo di un romanzo statunitense, tradotto in giapponese da un sedicente madrelingua. Ed è giusto ricordare anche come Fish Story, registrata su una musicassetta, sia la canzone grazie alla quale un giovane e timido studente vessato dagli amici incontrò nel 1982 la donna della sua vita. Sempre sapendo, e ci mancherebbe altro, che Fish Story è soprattutto il motivo grazie al quale nel 2012 la terra verrà salvata dal disastroso impatto con un enorme meteorite.
Va bene, resettiamo tutto e partiamo da capo:

– il combo precursore del punk non è mai esistito: le due splendide canzoni che si sentono nel film (Fish Story utilizzata a mo’ tormentone) sono contemporanee. Potete quindi tirare un sospiro di sollievo: il proto-punk è ancora appannaggio di Velvet Underground, MC5, Stooges e Modern Lovers.
– Il romanzo Fish Story, va da sé, non è mai stato pubblicato: le citazioni del testo presenti nel corso del film sono opera dello sceneggiatore Tamio Hayashi.
– Ovviamente non sappiamo se il mondo rischierà o meno di finire nel 2012, per cui non ci soffermiamo su questo punto; riteniamo comunque improbabile che la causa di un disastro di simili dimensioni possa essere attribuito a una collisione tra la Terra e un detrito spaziale.
Speriamo che siate inclini al perdono, e abbiate la forza di soprassedere su un cappello introduttivo così lungo e probabilmente di difficile comprensione per chi non abbia avuto la fortuna di imbattersi in Fish Story. L’opera nona di Yoshihiro Nakamura, stralunato cineasta giapponese celebre in particolar modo per il dittico medical-thriller composto da The Glorious Team Batista e The Triumphant General Rouge è un concentrato di intuizioni talmente denso da far perdere facilmente la lucidità allo spettatore meno preparato. Nakamura, altrove onesto mestierante senza troppo coraggio da vendere, sforna una delle opere più magmatiche e complesse viste ultimamente sugli schermi di tutto il mondo; attraverso questa ondivaga struttura narrativa, che ci fa spaziare dal 1975 al 2012, con varie fermate previste al 1979, 1982, 1999 e 2009, il trentanovenne cineasta nipponico ci costringe a ragionare sul senso stesso dell’esistenza e sul sentimento di appartenenza e di gruppo (la band prossima allo scioglimento, i tre amici in uscita serale, le ragazzine in viaggio in traghetto, i seguaci dei falsi profeti che attendono sulla spiaggia l’apocalisse che è stata loro promessa, e i tre uomini chiusi a dialogare nel negozio di dischi durante le poche ore che li separano dalla morte). Temi universali e abbondantemente abusati durante il dipanarsi della storia del cinema, ne siamo perfettamente consci, ma ai quali Nakamura riesce a trovare nuove sorprendenti angolazioni: allontanandosi dalla prassi neanche troppo ispirata che si respirava a pieni polmoni in The Triumphant General Rouge, Nakamura lavora sulla messa in scena in maniera quasi rapsodica. I diversi segmenti narrativi e temporali non appaiono a prima vista come declinazioni differenti di un identico mood, ma danno semmai l’impressione di un’istantanea, rubata alla realtà e per questo motivo vagamente sfocata, all’interno della quale possiamo oramai rintracciare solo pochi, e a tratti apparentemente inessenziali, frammenti di ciò che un tempo fu uno splendido insieme.

Non ci viene concesso dunque il privilegio di muoverci a nostro piacimento per i numerosi strati narrativi – alcuni più “lavorati”, altri appena abbozzati o puramente aneddotici – ma il nostro sguardo viene piuttosto asservito a regole decisamente ferree: una forma di della visione che cozza fragorosamente, e in maniera salutare, con l’appeal anarcoide che in molti punti della pellicola fa capolino sullo sfondo. Su questa suddivisione a suo modo quasi monolitica fra i piani temporali ne abbiamo sentite di cotte e di crude in seguito alla all’interno del palinsesto di questa edizione del Far East Film Festival: in molti si lamentavano di un’eccessiva dispersione dell’attenzione, soprattutto per quel che concerne il segmento dedicato alle disavventure della rock band. Ci permettiamo dunque di soffermarci un momento su questo aspetto, a nostro parere di primaria importanza per poter comprendere il senso e l’importanza del film di Nakamura: è infatti proprio nella lunga digressione sulla nascita del brano Fish Story – se trovate il modo di recuperare il pezzo via internet non esitate ad ascoltarlo: il suo ritmo travolgente, che guarda tanto ai Buzzcocks quanto agli adepti del culto del kraut rock, si trasformerà ben presto in una droga mortale – che si può cogliere il messaggio che, in maniera e sussurrata, il giapponese sta cercando di far trapelare fino al pubblico. Perché nel fare i conti con Fish Story, si finisce inevitabilmente a tirare le somme di un lungo e tortuoso – ma non per questo meno coerente – percorso storico e politico compiuto dalla società industrializzata negli ultimi trent’anni: la storia della canzone non è “solo” un simpatico aneddoto sulla solita band destinata a veder infrangere i propri sogni sugli scogli proprio un attimo prima di raggiungere l’approdo, ma è soprattutto il fermo immagine di un universo in fase di distruzione. Finita l’epoca del flower power che colpì anche l’industria musicale, con una bulimica ricerca del prodotto da lanciare sul mercato, gli anni settanta segnarono il riflusso e l’accomodamento borghese di chi fino a un minuto prima si proclamava “libero” da qualsiasi vincolo sociale: fu proprio il punk, anima ribelle spesso e volentieri suo malgrado, a ridare voce a quell’esercito di disperati, disillusi, folli che vivevano la musica per sé stessa, senza malattie capitaliste di cui infettarsi (in questo il Giappone ha dato i natali a una delle band più significative della storia del rock, i Les Rallizes Dénudés capitanati da Takashi Mizutani).

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Nel contestualizzare la gloriosa disfatta dei Gekirin, ambientando la vicenda a cavallo della nascita del punk (un anno prima della venuta alla luce dei Sex Pistols, come più volte ci viene ripetuto nel corso del film), Nakamura fa una decisa e precisa scelta di campo: senza che nessuno abbia neanche il tempo materiale per accorgersene, Fish Story si trasforma in un sentito elogio della sconfitta eterna, vissuta con quel sorriso sulle labbra con il quale, sembra volerci insegnare Nakamura, è possibile affrontare anche la distruzione della Terra. Pochi film, anche ben più incentrati sull’argomento rispetto a questo, hanno dimostrato la capacità di comprendere e mettere in scena l’assoluto valore metaforico che il rock ha acquisito all’interno della società della seconda metà del novecento – più ancora di cinema e televisione, perché evocativo e privo dell’elemento anche solo idealmente materiale dato dalla visione –, così come ancor meno sono le pellicole che hanno affrontato il genere catastrofico con la beffarda postura eretica regalataci da Fish Story. Ancora una volta è l’universo dei falliti e dei disillusi a farla da padrone: se il registro comico del pestaggio dei tre falsi profeti sull’arenile da parte della gente furibonda per una fine del mondo che proprio non sembra voler venire, colpisce nettamente nel segno – e appare come la versione divertita del finale de Il petroliere di Paul Thomas Anderson – ancora più efficace ci sembra il modo in cui la cultura popolare interviene prepotentemente all’interno delle dinamiche narrative. Abbiamo già detto del rock, del brano Fish Story e del carattere sorprendentemente metaforico che esso assume, e non ci torneremo sopra, ma non è certo tutto qui: come ogni disaster movie che si rispetti, il mondo ha bisogno di un supereroe per essere salvata da un nuovo e definitivo Big Bang che ne decreterebbe la fine ineluttabile.

Fish Story è una pellicola che parla in continuazione, in modo più o meno diretto, dei supereroi: non è certo per uno scherzo del destino che il film si apre sulla sigla di coda della serie tv The Go-Rangers, padre e precursore di quel fenomeno di massa internazionale che fu, all’inizio degli anni ’90, l’anodino telefilm Power Rangers. Proprio loro, i «magnifici cinque» come li apostrofa il ragazzo nella discoteca, salveranno il mondo – e poco importa che a farlo siano sì cinque persone, ma semplici astronauti – facendo esplodere le bombe lanciate mesi prima dagli americani (ogni riferimento ad Armageddon è tutt’altro che casuale), così come a salvarlo hanno contribuito nel corso degli anni e in maniera del tutto inconsapevole, tanti altri (super)eroi: il ragazzo che salva la sua futura moglie dallo stupro, il giovane che combatte da solo contro un piccolo esercito di dirottatori, perfino i quattro membri della band che vivono nella magnifica utopia che recita “music will save the world”. Ancora una volta dietro la semplice maschera dell’intrattenimento (che pure in Fish Story raggiunge picchi notevolissimi, in quasi due ore di puro godimento per gli occhi e per la mente) Nakamura nasconde la sua riflessione sul mondo e sull’umanità: quello che nei suoi film precedenti non riusciva mai alla perfezione, la capacità di trasportare il particolare della vicenda narrata all’universale della condizione umana, in Fish Story centra il bersaglio a ripetizione. Possiamo essere membri reietti della società, o feticci della medesima, ma siamo costituzionalmente spinti ad agire in direzione della grandezza e della giustizia: e questo non è un messaggio così semplice da accettare. E il file rouge che lega tutte le storie, e che ci viene completamente svelato solo nel finale, lascia definitivamente con il fiato mozzo anche lo spettatore più disattento.
Troviamo davvero pernicioso che Fish Story sia andato incontro a una serie di incomprensioni e di dubbi, perché abbiamo la netta di aver avuto la fortuna di confrontarci con uno di quei titoli di cui sarà necessario parlare, nel corso dei prossimi anni, con un misurato e al contempo strabordante mix di erudizione e spensieratezza. Sempre che nel 2012 non finisca davvero il mondo, come già profetizzavano i maya.
Ma tanto ci saranno loro, i «magnifici cinque», a salvarci…

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By Anam

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